Secondo il rapporto curato da Save the Children Italia troppe le disparità nel servizio tra Comune e Comune
Fa riflettere il rapporto “(Non) tutti a mensa 2017” diffuso lo scorso martedì da Save the Children Italia, probabilmente la più importante organizzazione non governativa che si occupa dei diritti dell’infanzia in tutti i Paesi del mondo. Al centro dell’indagine, la quarta del genere a partire dal 2013, viene condotta un’analisi sull’offerta del servizio di refezione scolastica nelle scuole primarie italiane, soffermandosi non soltanto sulla percentuale di accesso degli alunni alle mense scolastiche, ma anche su numerosi altri aspetti come quello relativo ai costi del servizio, alla percentuale di contribuzione richiesta alle famiglie, ai criteri di agevolazione e di esenzione, alle restrizioni e alle eventuali esclusioni dei bambini dal servizio in caso di morosità da parte dei genitori. Save the Children ha utilizzato per questo rapporto, che ci è sembrato piuttosto accurato, i dati provenienti da questionari specifici somministrati ai 45 Comuni capoluogo con popolazione maggiore ai 100.000 abitanti e quelli provenienti da altre fonti autorevoli, come l’Istat e il ministero dell’Istruzione. I risultati sono - o dovrebbero essere - allarmanti. Specialmente nelle regioni del sud Italia la percentuale di alunni che non usufruiscono del servizio mensa - essenzialmente perché non disponibile - sono molto elevate: con picchi in Sicilia (80,04%), Puglia (73,1%), Molise (69,34%), Campania (64,58%) e Calabria (63,11%). Non è un caso, sostiene il rapporto, che siano anche le regioni italiane dove si registra la minore disponibilità di tempo pieno scolastico e dove il fenomeno della dispersione scolastica raggiunge percentuali più allarmanti. Anche qui, il triste primato va alla Sicilia con il 23,5% degli alunni che abbandonano le aule senza finire il percorso di studi e il 92,23% di classi senza la possibilità di usufruire del tempo pieno. Sono anche le regioni, particolare non secondario, dove si registrano gli indici più elevati di povertà minorile.
Infatti, secondo l’organizzazione non governativa, non è in gioco soltanto la possibilità degli alunni di usufruire o meno di un pasto a scuola, possibilmente in uno spazio mensa appositamente dedicato (condizione anche questa che non è possibile dare per scontata). La mensa infatti rappresenta un’importante occasione di convivialità e socialità e contribuisce in maniera non secondaria al completamento dell’offerta formativa della scuola. Il servizio può rappresentare - sempre a giudizio di Save the Children - uno “strumento incisivo di contrasto alla povertà minorile e alla dispersione scolastica, quando associato con il tempo pieno”. Non va inoltre sottovalutata l’importanza di un pasto sano e equilibrato a fronte di quel 5,7% di minori che risultano non consumare carne, pollo, pesce o equivalente proteico vegetariano almeno una volta al giorno - a causa delle precarie condizioni economiche delle famiglie - o di quel 10% che risulta obeso e di quel 20% in sovrappeso a causa di una cattiva alimentazione. Infine, il servizio mensa diventa prioritario anche in un’ottica di inclusione e di pari opportunità incidendo su fattori di contesto più ampi, come l’organizzazione familiare e l’accesso al mondo del lavoro da parte delle madri. Un servizio così determinante per lo sviluppo dei minori e la vita delle famiglie è però disponibile in maniera non uniforme sul territorio nazionale - molto più al Centro e al Nord e molto meno al Sud - e con modalità troppo disomogenee, perché interamente demandate alle politiche comunali (ad esempio in termini di presenza e costo del servizio o di percentuale di compartecipazione alla spesa richiesta alle famiglie) che, peraltro, possono anche prevedere l’esclusione dal servizio (è il caso in 9 dei 45 Comuni capoluogo presi in esame) i figli dei genitori morosi. Inutile specificare come l’organizzazione non governativa - e, più modestamente, anche lo scrivente - ritengano non accettabile che per le eventuali responsabilità dei genitori debbano farne le spese i bambini. Di fatto il servizio mensa è considerato dalla normativa vigente come un servizio a domanda individuale - che quindi “può essere o non essere garantito dai Comuni, compatibilmernte con le loro esigenze di bilancio” - e non come un servizio pubblico essenziale. A titolo di esempio: se a Monza, Bolzano e Forlì il 100% degli alunni usufruiscono del servizio, a Messina sono lo 0% - il Comune ha smesso di erogare il servizio tout court per difficoltà di bilancio - a Reggio Calabria lo 0,07% e a Palermo il 2,38%. La prima cosa da fare secondo Save the Children Italia per sanare una situazione che in effetti appare, quanto meno, lontana dall’essere accettabile? Intervenire a livello legislativo per cambiare la natura del servizio di refezione scolastico nelle scuole primarie: da servizio a domanda individuale a servizio pubblico essenziale.