Premesse
Con la sentenza n. 1064 della Sezione Quinta del Consiglio di Stato pubblicata il 31/01/2023, in riforma della sentenza del Tribunale Amministrativo Regionale per la Puglia sezione staccata di Lecce (Sezione Terza) n. 00943/2022, è stata ritenuta legittima la scelta organizzativa di un Comune di esternalizzare, anche in parte, i servizi legali dell’Avvocatura civica, in ragione dell’ampia discrezionalità, in termini di potestà organizzativa, di cui dispongono gli organi comunali nell’ambito dell’ordinamento giuridico vigente.
L’Avvocatura comunale rientra, difatti, tra gli uffici dell’ente e, come tale, risulta soggetta alla discrezionalità organizzativa degli organi di indirizzo politico deputati alla demarcazione delle linee fondamentali della stessa struttura amministrativa.
Nel caso di specie, il giudice d’appello ha ribaltato la decisione di primo grado, pronunciata sulla base di un ricorso proposto, da parte di uno degli avvocati comunali, contro i provvedimenti dell’amministrazioni finalizzati alla parziale esternalizzazione dell’affidamento degli incarichi legali.
I precedenti giurisprudenziali: regole per l’Avvocatura comunale
Già in precedenza, la stessa Sezione Quinta (sentenza n. 5143 del 3 settembre 2018) aveva affermato che: “la determinazione delle linee fondamentali di organizzazione degli uffici pubblici (con l'individuazione di quelli di maggiore rilevanza, dei modi di conferimento della relativa titolarità e di determinazione delle dotazioni organiche complessive) è rimessa - sulla base di "principi generali" fissati dalla legge - a ciascuna amministrazione pubblica, che vi provvedere mediante "atti organizzativi" (cfr. artt. 2 e 5 d. lgs. n. 165/2001), complessivamente ispirati a criteri di funzionalità, flessibilità, trasparenza ed imparzialità, idonei a tradurre e compendiare, in prospettiva programmatica, i principi costituzionali di buon andamento ed imparzialità (art. 97 Cost.) e a perseguire la complessiva efficacia ed efficienza dell'azione amministrativa (art. 1 l. n. 241/1990).
Sebbene non sia revocabile in dubbio che siffatti "atti organizzativi" rientrino pienamente nel novero del provvedimenti amministrativi e siano, in quanto tali, soggetti al relativo statuto (che ne impone la complessiva verifica di legittimità, la soggezione alle norme sulla competenza, il rispetto dei canoni di ragionevolezza, la garanzia di imparzialità e ne legittima il corrispondente sindacato giurisdizionale da parte del giudice amministrativo, anche in punto di adeguatezza delle premesse istruttorie e di idoneità giustificativa sul piano motivazionale: cfr. Cons. Stato, sez. V, 12 giugno 2009, n. 3728), è vero, tuttavia, che gli ampi margini della scolpita logica di auto organizzazione postulano ed impongono, per tradizionale e consolidato intendimento, il riconoscimento di una lata discrezionalità programmatica.
La conclusione discende, del resto, dal rilievo che - pur essendo anche l'attività amministrativa organizzativa assoggettata al principio di legalità (art. 97 Cost., nella parte in cui postula una base legale ad ogni attribuzione competenziale) - i relativi procedimenti (di matrice caratteristicamente infrastrutturale o interna o programmatoria) non sono destinati ad incidere, se non in via mediata, sulle posizioni soggettive dei consociati, in quanto destinatari dell'azione amministrativa: a livello macro-organizzativo, l'amministrazione non entra in relazione diretta con i titolari di situazioni giuridiche soggettive, ma crea soltanto presupposti alla instaurazione di rapporti giuridicamente rilevanti con tali soggetti. Ne risulta corrispondentemente attutito (se pur non eliso, non trattandosi propriamente di autonomia) il profilo garantistico del momento giustificativo, che legittima - come tale - un sindacato limitato al travisamento del fatto o al manifesto eccesso di potere.
Si dovrà cioè osservare che sussiste, nella adozione dei provvedimenti in questione, una discrezionalità che, per un verso - non strutturandosi in termini di confronto comparativo di posizioni e di interessi pubblici e privati, nella logica della determinazione conclusiva dei procedimenti ad efficacia esterna - ridimensiona, pur senza elidere, l'intensità dell'onere motivazionale e, per altro e consequenziale verso, limita il sindacato giudiziale alle ipotesi di conclamata ed evidente abnormità.
A livello di enti locali, gli esposti principi hanno trovato conferma positiva a partire dalla legge n. 127 del 1997 che, nel modificare l'art. 51 della legge n. 142 del 1990, ha cambiato la competenza ad adottare il regolamento degli uffici e dei servizi, attribuendolo (unico, non a caso, fra tutti i regolamenti) alla Giunta, proprio per porre in evidenza che la organizzazione degli uffici degli enti locali è vicenda intrinsecamente collegata con il potere operativo.
In siffatto contesto, anche l'Avvocatura Comunale, malgrado le consistenti guarentigie rivenienti dalla legge professionale in relazione alla qualificata attività dispiegata, rappresenta a tutti gli effetti un ufficio comunale e, come tale, è soggetto al generale potere di auto-regolamentazione dell'ente”.
Tuttavia, in tema di potere organizzativo degli enti locali e connesso obbligo di motivazione in relazione alle modifiche degli uffici interni dell’ente stesso, la stessa Sezione (sentenza n. 2607 del 14 maggio 2013) ha ritenuto che gli atti amministrativi attraverso i quali vengono organizzati gli uffici si ispirano a principi di non manifesta illogicità o incongruità dell'assetto in concreto prescelto, sia pure da adottare, come si dirà, sulla base di una motivazione comunque semplificata.
La motivazione semplificata
L’obbligo di motivazione circa le ragioni delle scelte organizzative in materia è fortemente attenuato, limitandosi all'esigenza di manifestare congruità e non irragionevolezza delle scelte operate e dei modelli organizzatori adottati.
È sufficiente, quindi, che tale obbligo motivazionale giustifichi come logico e congruente il nuovo assetto organizzativo introdotto, potendosi ritenere assolto in modo sintetico ed apprezzabile dal giudice anche ab externo.
Gli elementi essenziali alla base delle decisioni organizzative in materia
Ai fini della legittima organizzazione dei servizi, ad avviso del Consiglio di Stato è necessario che:
Quanto al primo profilo, come ritenuto nel caso di specie, la giustificazione può essere legata all’esigenza di ottimizzare la spesa e risolvere problematiche organizzative interne.
Quanto al secondo, la scelta è logica e ragionevole laddove finalizzata, ad esempio, a migliorare la qualità nella gestione del contenzioso in termini di efficienza ed efficacia della prestazione resa considerando, in particolare, i carichi di lavoro della civica avvocatura, nonché a ridurre i costi complessivi in termini di incidenza del costo del contenzioso in ragione delle economie di scala che l’affidamento comporta.
Le funzioni consulenziali e di supporto giuridico amministrativo dell’Avvocatura civica
Nell’occasione del giudizio in questione, la Sezione ha anche rammentato che possono rientrare tra i compiti istituzionali dell’avvocatura quelli consulenziali in favore degli uffici comunali, in tal senso richiamando il CCNL 31 marzo 1999, che prevede, tra le mansioni cui adibire il personale della Categoria D (ove sono espressamente annoverabili figure specialistiche come gli avvocati), proprio la “attività di analisi, studio e ricerca”.
Le “modifiche unilaterali” per il profilo degli avvocati comunali
A margine della sentenza in argomento, infine, è il caso di rammentare che, ormai in modo consolidato, la Suprema Corte di Cassazione civile ha statuito che lo jus variandi delle mansioni negli enti locali si applica anche ai profili specialistici, compreso il profilo degli avvocati comunali.
In tal senso, la Cassazione - sez. lavoro, con ordinanza n. 23219/2022 depositata il 25.7.2022, ha affermato che è consentito al datore di lavoro l’assegnazione del dipendente a compiti che, pur non esplicandosi in atti di professione legale, siano inerenti al campo giuridico, salvaguardando il suo patrimonio professionale e rispettando la sua collocazione nell'ambito della gerarchia dell'ente.
Secondo la suddetta ordinanza della Suprema Corte, infatti: “qualora un avvocato o procuratore venga inserito nell'ufficio legale di un ente pubblico non economico, con costituzione di rapporto di lavoro subordinato, come consentito dall'art. 3 quarto comma lett. b del R.d.l. 27 novembre 1933 n. 1578 (convertito in legge 22 gennaio 1934 n. 36 e modificato dalla legge 23 novembre 1939 n. 1949), in deroga alla regola generale dell'incompatibilità della professione forense con impieghi retribuiti, la disciplina di tale rapporto trova prevalente applicazione, anche per quanto riguarda le disposizioni dell’art. 52 d. lgs. 165/2001, sicché si deve ritenere consentito al datore di lavoro, nel rispetto delle classificazioni e delle altre eventuali regole di cui alla contrattazione collettiva, un ampio esercizio dello jus variandi e quindi di assegnazione ad altri compiti, nei limiti in cui, in concreto, così operando non si realizzi una sottrazione pressoché integrale delle funzioni da svolgere, vietata anche nell'ambito del pubblico impiego o un intenzionale comportamento vessatorio, causativo di danni”.
In definitiva, ad avviso della Suprema Corte (v. anche Cass. 8 aprile 2022, n. 11499; Cass. 21 maggio 1999, n. 11835), l’esercizio dello jus variandi, sotto il profilo delle diverse mansioni attribuite, è espressione della discrezionalità del datore di lavoro pubblico, insuscettibile, quando rispettoso delle regole di esercizio e quindi della classificazione derivante dalla contrattazione collettiva, di controllo nel merito della scelta assunta, salvo il solo limite che i compiti attribuiti costituiscano, per quantità e qualità concreta, uno svuotamento totale di mansioni, quest’ultimo mai legittimo, ma da apprezzare in concreto.
Articolo di Eugenio De Carlo
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