Tra i diversi commissari alla revisione della spesa pubblica che si sono succeduti negli anni, l’economista Carlo Cottarelli è stato forse quello il cui operato ha lasciato un segno più incisivo, tant’è che anche di recente è stato chiamato in causa - è sembrato “a sua insaputa” - come ipotetico ministro di un ancor più ipotetico nuovo Governo. Oggi dirige l’Osservatorio conti pubblici italiani dell’Università cattolica di Milano al quale, giusto in questi giorni, si deve la pubblicazione di un
rapporto che getta una nuova luce sulla reale portata dei risultati conseguiti grazie alla centralizzazione degli acquisti della pubblica amministrazione e che forse, se le conclusioni illustrate sono esatte, contribuirà a ridimensionare un po’ alcuni toni troppo trionfalistici utilizzati nel recente passato. Un forte impulso alla diffusione degli acquisti centralizzati si deve senza dubbio all’effetto del Decreto legislativo 66 del 2014, un provvedimento emesso proprio nel periodo in cui Cottarelli è stato commissario e sicuramente non estraneo all’influenza del suo mandato. Al Dl 66 si possono far risalire una serie di obblighi e novità, alcuni dei quali però - secondo il rapporto - parzialmente disattesi o non pienamente ottemperati.
Tra questi, come ci ricorda il rapporto, l’obbligo di effettuare acquisti di specifici beni e servizi, di importo superiore a certe soglie, soltanto attraverso Consip e gli altri “soggetti aggregatori” locali (o centrali d’acquisto); l’aver limitato il numero di soggetti aggregatori ammissibili a 35 (inclusa la Consip); l’aver introdotto la previsione di uno specifico decreto annuale del Presidente del Consiglio dei ministri (dpcm) per aggiornare sia le categorie oggetto dell’obbligo sia le soglie rilevanti; il Dl 66, inoltre, aveva previsto una maggiore trasparenza sui prezzi di acquisto e l’introduzione di prezzi sopra i quali non sarebbe stato possibile comprare (“prezzi benchmark” e prezzi di riferimento”). Una parte di questi obblighi, come si diceva, non è stata pienamente osservata. Ad esempio, è stato emesso un unico dpcm (nel dicembre 2015) che ha individuato soltanto 19 categorie merceologiche di competenza dei soggetti aggregatori, in maggioranza riguardanti i prodotti sanitari. Ma senza addentrarci nei rilievi riguardanti i singoli aspetti esaminati dal team dell’Università milanese, per i quali rimandiamo alla lettura del rapporto, riportiamo qui di seguito soltanto alcune delle principali conclusioni in merito all’effettiva diffusione degli acquisti passati attraverso i soggetti aggreganti e dei relativi risparmi conseguiti.
Il quadro preso in esame dal rapporto si riferisce all’anno 2016, in quanto ultimo anno per il quale è possibile contare su dati certi. La spesa totale per acquisti di beni e servizi da parte della pubblica amministrazione, in quell’anno, è stata di 90,7 miliardi di euro. Il rapporto specifica che di questo totale, quella effettivamente “presidiata” – ovvero che potenzialmente potrebbe venire effettuata attraverso le quattro diverse modalità previste dai soggetti aggregatori – nel 2016 ammontava a 48,3 miliardi, pari al 53,2% del totale. Una percentuale, quella della spesa “presidiata”, che è andata costantemente aumentando negli ultimi anni, dato di per sé positivo. I restanti 42 miliardi e passa di spesa pubblica complessiva rientrano invece in categorie che riuscirebbero difficili da gestire con gli strumenti di centralizzazione degli acquisti attualmente in uso (è il caso, ad esempio, delle forniture militari). Ma una cosa è la spesa “presidiata”, e quindi potenzialmente gestibile da Consip, e un’altra è quella “intermediata”, cioè effettivamente passata attraverso Consip. Anche questa è cresciuta negli anni, passando dai 2,8 miliardi del 2010 agli 8,2 del 2016. Siamo però ancora soltanto al 9% del totale. Un risultato ancora troppo basso e ancora di più se si pensa che soltanto la spesa delle 19 categorie “obbligatorie” avrebbe dovuto equivalere, nel 2016, a 15,8: molto di più, quindi, di quanto “intermediato” da Consip. Quanto agli altri soggetti aggregatori, per ora 31, alcuni dei quali non ancora operativi, non esiste alcun dato ufficiale. In altre parole, lo stesso Mef non sa se e quanti acquisti sono stati effettuati dagli altri soggetti al di fuori di Consip. Né gli economisti di Cottarelli sono riusciti ad ottenere dei dati contattando le singole centrali di acquisto locali. La conclusione cui giunge il rapporto è che, sebbene in mancanza di dati certi disponibili, il volume di acquisti centralizzati effettuati al di fuori di Consip è sicuramente scarsamente significativo.
Dove però gli acquisti sono stati fatti in maniera centralizzata, i risparmi sono stati effettivi. Nel rapporto vengono fatti alcuni esempi: il 17% di risparmio per l’acquisto di un’utilitaria; il 25% per quello di un van o di un veicolo multifunzione; fino al 40% per carburanti, buoni pasto, energia elettrica, telefonia. L’Osservatorio ha calcolato il risparmio medio degli acquisti fatti tramite Consip in un 15%. La riforma del 2014 ha portato quindi sicuramente a dei risultati, ma andrebbe dato un impulso deciso alla quota effettivamente “intermediata” e a quella “presidiata”. In questo senso, sarebbe decisivo un nuovo dpcm per allargare le categorie di acquisti che devono obbligatoriamente passare per i soggetti aggregatori. Secondo l’Osservatorio, inoltre, rimangono ancora “significativi problemi di trasparenza”. Come detto, mancano del tutto informazioni ufficiali sulle quantità acquistate, e sui prezzi praticati, da tutti i soggetti aggregatori al di fuori della Consip. Inoltre continuano a mancare, in un formato completo e pubblicamente fruibile, i prezzi di acquisto effettivo di tutte le pubbliche amministrazioni.