Stanziati 100 miliardi per i prossimi 15 anni, ma i cantieri per le grandi opere non partono
Grandi opere ferme (di Lorenzo Salvia su “L’Economia del Corriere della Sera” del 25 settembre 2017)
In Italia si comincia a parlare di un timido tentativo di ripresa economica. Anche la stima del Pil per il 2017 è stata rivista in (leggero) rialzo: dovrebbe toccare l’1,5%. C’è però un pezzo dell’economia - un settore importante che nella storia del nostro Paese è sempre stato capace di far girare da solo il vento dell’economia - che manca all’appello, anzi, è in controtendenza. E’ quello delle costruzioni che, secondo l’ultima stima fatta dall’Istat, a luglio ha fatto addirittura registrare un meno 0,4%. Eppure, dopo anni di vacche magre per via della recessione e dell’austerity, adesso le risorse da investire ci sarebbero e, infatti, la curva degli investimenti pubblici è tornata a salire in modo stabile. In effetti, i fondi messi a disposizione per gli investimenti pubblici, grazie anche alle ultime due finanziarie, ammontano a 100 miliardi per i prossimi 15 anni. Soltanto il contratto di programma dell’Anas, approvato dal Cipe lo scorso agosto per il periodo 2016/2020, vale 29,5 miliardi di euro. E non sono pochi gli altri investimenti rilevanti in ballo, tra quelli per le ferrovie, per la messa in sicurezza del territorio contro il dissesto idrogeologico, oppure il piano per le periferie e per la sicurezza delle scuole. Anche se non si tratta sempre di soldi “freschissimi”, ma in alcuni casi del riciclo di vecchi fondi non spesi, il concetto non cambia: le risorse per far ripartire la macchina dei lavori pubblici ci sarebbero. Ma questa resta ugualmente ferma, oppure procede molto a rilento. Basta dare un’occhiata ai dati che riguardano il numero delle ore lavorate nel settore delle costruzioni per rendersene conto: l’anno scorso sono state poco meno di 272 milioni. Soltanto pochi anni fa, nel 2013, erano ancora oltre quota 300 milioni. Rispetto all 2008 poi, quando la grande crisi era già scoppiata ma ancora non se ne contavano gli effetti, si può parlare di un vero e proprio crollo: - 49%.
Esistono diversi fattori che concorrono alla spiegazione del fenomeno e, probabilmente, tutti hanno un loro peso. Secondo l’Ance - l’Associazione nazionale dei costruttori - la colpa principale è del “nuovo” Codice degli appalti. In effetti, come accaduto per altre riforme in Italia, è opinione abbastanza diffusa che un effetto “choc da innovazione” all’inizio ci sia stato. Secondo i dati dell’Ance, nel maggio del 2016 - quindi ad un mese dall’entrata in vigore del nuovo Codice - ci sarebbe stato un crollo del valore dei bandi di gara pubblicati del 75% rispetto all’anno precedente. Anche l’attuazione della nuova legge è stata in effetti particolarmente tormentata, con diverse correzioni e aggiustamenti in corsa (l’ultimo di pochi mesi fa). E va anche detto che, delle 60 linee guida a cura dell’Autorità anticorruzione, finora ne sono state rese disponibili soltanto 15. A stemperare le obiezioni dei costruttori, però, l’articolo fa notare come il Codice sia ormai in vigore da oltre un anno e mezzo e riporta il dato che attesta un valore dei bandi salito del 15% (rispetto all’anno precedente) nel primo semestre del 2017. Una cosa però sono i bandi, un’altra l’apertura dei cantieri. E qui entra in gioco un altro fattore che sta pesantemente condizionando l’avvio dei cantieri delle opere pubbliche, quello dei ricorsi delle imprese. Ormai è una prassi consolidata: chi non vince l’appalto ricorre, finendo per bloccare tutta la procedura. L’80% degli importi che riguardano le gare bandite dall’Anas tra il 2016 e il 2017, ad esempio, è bloccato dai ricorsi. Si parla di un valore di 3,7 miliardi di euro in tutto. Soltanto 2,7 di questi riguardano la nuova autostrada Roma-Latina. Esiste poi la variante del “doppio ricorso incrociato”, come nel caso della linea per l’alta velocità tra Napoli e Bari. Infatti i due lotti finora assegnati (del valore complessivo di oltre 700 milioni) sono stati vinti in un caso da un raggruppamento di imprese arrivato secondo nell’altro, e nell’altro da un altro raggruppamento arrivato secondo nel primo caso. Morale i due raggruppamenti hanno fatto ciascuno ricorso quando sono arrivati secondi e, al momento, è tutto bloccato.
A volte il blocco può arrivare ancora prima, “a monte”. E’ il caso, ad esempio, del piano nazionale contro il dissesto idrogeologico, un finanziamento di quasi 10 miliardi spalmato su otto anni per un totale di 9.397 opere previste. In questo caso sono proprio i progetti - la capacità di progettare - a mancare. I Comuni, ma anche i provveditorati alle opere pubbliche e le società di ingegneria mancherebbero delle competenze necessarie a presentare dei progetti idonei a far partire i cantieri. Ma quando anche dovessero esserci tutte le altre condizioni, ecco che arriva un altro fenomeno a rallentare il tutto: la “fuga dei commissari”. Sarebbe sempre più difficile infatti trovare funzionari pubblici disposti a far parte delle commissioni che assegnano i lavori. Il caso più eclatante è quello del Comune di Roma dove, secondo il direttore generale Franco Giampaoletti, si assisterebbe ad una “frequente rinuncia alla nomina, anche adducendo motivazioni che spesso sconfinano nell’arbitrario”. Nella capitale, per questo motivo, sono ancora ferme opere addirittura previste per il Giubileo (finito nel 2016). Di fatto, l’impiegato nominato per far parte di una commissione giudicatrice non ha diritto ad alcun incentivo economico, visto che i gettoni sono stati aboliti, ed ha paura di finire coinvolto in qualche inchiesta successiva, e quindi cerca di sottrarsi come può al compito che gli è stato assegnato. E proprio questo ultimo fenomeno potrebbe essere risolto dal nuovo Codice degli appalti, perché la riforma prevede che i funzionari non debbano essere scelti tra i funzionari della stazione appaltante, ma bensì in un apposito albo curato dall’Autorità anticorruzione. Peccato che il decreto attuativo dell’albo debba ancora essere emanato.
La situazione è però destinata a migliorare sensibilmente, secondo quanto riportato nell’articolo “Niente paura, sarà l’anno della svolta”, sempre a cura di Lorenzo Salvia e pubblicato nell’inserto Economia del Corriere della Sera odierno. In questo caso vengono riportate le parole del ministro delle Infrastrutture Graziano Delrio, che difende a spada tratta il lavoro svolto in questi anni, prima col Governo Renzi e poi con quello Gentiloni. «Abbiamo sbloccato gli investimenti dopo anni di magra - dice - Abbiamo allentato il patto di Stabilità che impediva di spendere pure i pochi soldi che c’erano già in cassa. Vedremo alla fine, io sono convinto che questo sarà l’anno della svolta anche per il settore delle costruzioni». Respinte anche le critiche al nuovo Codice degli appalti: «la riforma del Codice è la soluzione, non un problema - dichiara il ministro -. Tutti gli scandali di cui abbiamo letto in questi anni si sono verificati quando erano in vigore le vecchie regole. Non bisogna mica avere paura della legalità». Comunque, se da una parte il Codice viene difeso, dall’altra non si escludono eventuali interventi di semplificazione delle procedure. Sempre dalle dichiarazioni di Delrio, si profilerebbe un’ipotesi di intervento - anche se ancora da mettere a punto - sul fenomeno del proliferare dei ricorsi, che potrebbe essere contenuta nella prossima legge di Bilancio. Si starebbe valutando la possibilità di escludere dalle gare di una stazione appaltante una determinata impresa, se questa avesse in precedenza presentato, contro lo stesso Ente, un certo numero di ricorsi successivamente bocciati dalle autorità competenti. Si tratterebbe quindi di una sorta di deterrente contro le cosiddette “liti temerarie”, quelle cioè intentate non tanto con la convinzione di vincere quanto con quella di arrecare disturbo ad una concorrente. L’esempio più chiaro del fenomeno verrebbe dall’Anas, che ha vinto il 79% dei ricorsi presentati dalle imprese non aggiudicatarie dei bandi.