L’emergenza Covid-19 ha lasciato la sanità stanca ed affaticata, con diverse cicatrici, e già con il decreto Rilancio si tenta di portarle aiuto (con un intervento di 1,26 miliardi), affidando alle Regioni la riorganizzazione ed il potenziamento della rete di sorveglianza e le cure domiciliari. Il perno di quella che vuole essere una rivoluzione dell’assistenza territoriale sarà la nuova figura dell’infermiere di famiglia, per permettere di aiutare i pazienti più fragili e quelli in isolamento domiciliare. Si parla di 9.600 nuove unità di personale infermieristico, che fino a dicembre saranno arruolati mediante lavoro autonomo, per poi vedersi rinnovare il contratto a tempo indeterminato, una volta che il tutto sarà a regime.
Protagonisti insieme ai medici della lotta durante l’esplosione dell’emergenza sanitaria, sono oltre 267.000 gli infermieri operanti presso il Sistema sanitario nazionale, e oltre 124.000 i liberi professionisti assunti come dipendenti da altri enti o strutture pubbliche. A loro viene oggi richiesto di andare a coprire un ruolo nuovo, per alcuni aspetti simile a quello del medico di famiglia, che risulterà indispensabile per aiutare le Unità speciali di continuità assistenziale (Usca), sorte proprio allo scopo di fornire assistenza domiciliare ed assistere le persone malate di Covid-19, che si trovavano isolate a casa.
Stando alla Federazione nazionale delle professioni infermieristiche (Fnopi) il decreto impone un tetto di 8 infermieri di famiglia ogni 50.000 abitanti. Si tratterebbe di un numero non sufficiente a rispondere al fabbisogno reale della popolazione, si è infatti calcolato che “ne servirebbero circa 21mila di infermieri sul territorio, uno ogni 3mila abitanti oppure uno ogni 400 pazienti cronici”, stando a quanto affermato dal componente del comitato centrale della Fnopi, Nicola Draoli. Sarà poi compito delle Regioni stabilire gli incarichi in base alle esigenze reali del territorio.
Una figura solo all’apparenza innovativa, perché “nei piccoli paesi delle aree interne spesso l'infermiere di comunità è già insito nel sistema”, ha aggiunto Draoli, mentre “nelle aree metropolitane, invece, bisogna strutturare una nuova rete di assistenza perché oggi esistono diversi servizi non in collegamento tra di loro. Bisogna garantire un punto di riferimento che non può essere solo il medico di base.”
Il quadro generale è però già sotto sforzo tra graduatorie piene, contratti che necessitano di essere stabilizzati; si richiederà quindi l’assistenza dei sindacati, utili a concertare l’intera operazione. In conclusione, Draoli ha spiegato che “Durante l'emergenza abbiamo chiesto ai pensionati di tornare a lavorare, favorito le lauree anticipate e attivato un tavolo con il Miur. Ma la carenza strutturale di infermieri in Italia è emersa con chiarezza”.
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