La Rivista del Sindaco


IL PAESE DEI COMUNI FALLITI - INCHIESTA DE “LA REPUBBLICA”

Finanza Locale
di La Posta del Sindaco
12 Ottobre 2016

Segnaliamo due articoli - “Dai bilanci allegri al disavanzo tecnico” di Alberto Custodero e “Fondi scarsi, ma i sindaci facciano mea culpa” di Alessandro Cecioni

Dai bilanci allegri al disavanzo tecnico (Alberto Custodero, Le Inchieste de la Repubblica e L’Espresso, 12 ottobre 2016) Il Comune di Roma è già stato salvato una volta, commissariando in vece sua il debito “monstre” accumulato - 13,7 miliardi, 20 compresi gli interessi - ed evitando così un danno di immagine che sarebbe stato devastante per il Paese intero. Ora che lo spettro del default sembra riaffacciarsi all’orizzonte, se è vero quello che si è scritto in queste ultime settimane a proposito dei conti dell’Ente amministrato da Virginia Raggi, ci si chiede se ancora una volta Roma verrà risparmiata in virtù del suo status di capitale, oppure se le toccherebbe la sorte condivisa dai molti Comuni che non hanno potuto contare su alcun escamotage in loro favore. 
Sono infatti 84 i Comuni che hanno subito l’onta del dissesto (dichiarato allorché sopravviene l’incapacità di pagare i debiti con le entrate correnti e di assicurare l’erogazione dei servizi pubblici), mettendo in luce peraltro una ennesima “questione meridionale”. Infatti secondo un’analisi realizzata dall’Ifel, l’iIstituto per la Finanza locale dell’Anci, oltre la metà degli 84 Enti si concentra in due sole Regioni: 25 Comuni in Calabria e 24 in Campania (dati aggiornati all’8 giugno 2016 per il periodo di riferimento 2011-2016). Segue la Sicilia con 16 Amministrazioni. Mentre al nord ci sono stati soltanto due casi di dissesto (in Piemonte) e nessuno nel Nordest, che si caratterizza quindi come la parte d’Italia più virtuosa da questo punto di vista. Se poi si guarda agli Enti locali in pre-dissesto, ovvero a quelli che hanno aderito alla procedura di riequilibrio finanziario pluriennale, arriviamo a 146 (tra questi, 10 Province), anche in questo caso con una concentrazione sensibilmente maggiore nel Meridione. In particolare, a preoccupare sono i Comuni siciliani, sia per le dimensioni degli Enti interessati sia per una situazione di squilibrio finanziario che sembra ormai essersi cronicizzata.  

Purtroppo il trend dei Comuni che hanno deliberato il dissesto è in crescita costante: dai 3 del 2011 si è arrivati ai 21 del 2014, passando per i 14 del 2012 e i 20 del 2013. Due sono le ragioni principali che hanno portato alla situazione presente: una può essere portata a parziale discolpa e consiste nel fatto che i Comuni hanno subito negli ultimi anni dei tagli alle entrate molto consistenti. Nel periodo 2010-2015 hanno visto una riduzione pari a 8,6 miliardi di euro, e un’ulteriore diminuzione della capacità di spesa è stata determinata dall’istituzione del “Fondo crediti di dubbia esigibilità”, ammontante ad altri 2,5 miliardi.  
L’altro fattore, sicuramente quello determinante, è invece interamente classificabile tra i casi di cattiva amministrazione: per anni i bilanci degli Enti locali sono stati “gonfiati” dalla previsione di entrate palesemente inesigibili, o esigibili soltanto in maniera parziale, assicurandosi così la possibilità di spendere senza però avere in cassa delle reali coperture. Questo fenomeno ha portato all’accumularsi di deficit che si sono “tramandati” da amministrazione a amministrazione fino ad arrivare fuori controllo o, in alcuni casi, a punti di non ritorno, con l’unica dolorosa (per i cittadini) via d’uscita della dichiarazione di dissesto finanziario.  

Le regole contabili sono però cambiate nel 2015, allorché il ministero dell’Economia ha deciso, anche su pressione dell’Unione europea, di correre ai ripari. Si è quindi stabilito di porre fine al sistema dei falsi in bilancio “legalizzati” imponendo ai Comuni una ripulitura dei propri conti. In particolare è stato introdotto il principio della “competenza finanziaria potenziata o a scadenza” che obbliga l’ente a spendere solo i soldi effettivamente incassati. L’equilibrio di bilancio è ora dato dal pareggio tra tutte le entrate reali e tutte le spese. Altra novità che dovrebbe obbligare a maggiori cautele è quella che prevede che, nel caso in cui malgrado le nuove regole si dovesse determinare una situazione di dissesto, sindaco, assessore al bilancio e ragioniere capo possono andare incontro ad accuse pesanti che prevedono sanzioni penali, quali quelle di falso in bilancio e falso ideologico. E inoltre, nel caso in cui la Corte dei Conti dovesse accertare una loro responsabilità nel dissesto, i politici risulterebbero ineleggibili per un periodo di 5 anni. Il danno erariale non dovrà quindi essere più dimostrato attraverso un faticoso procedimento giudiziario, come avveniva in precedenza, ma le sanzioni potranno essere inflitte già in presenza del solo dissesto.  

Poiché non sarebbe stato possibile passare da un anno all’altro a un diverso sistema di contabilità, l’anno scorso gli Enti pubblici hanno presentato due diverse versioni di bilancio: una autorizzativa, secondo le vecchie regole, e una conoscitiva secondo le nuove. L’anno seguente la conoscitiva è diventata autorizzativa e, da quel momento, si è partiti con il nuovo regime. Non tutto è filato liscio, però. Infatti nel passare alle nuove regole, e quindi nel non considerare più i crediti inesigibili come attivi, moltissimi Comuni hanno evidenziato un disavanzo, che è stato definito “tecnico” (in quanto frutto di una nuova normativa). Poiché il passaggio è stato incentivato dalla circostanza che l’eventuale deficit risultante non avrebbe comportato responsabilità, di fatto molti Comuni hanno interpretato la nuova normativa alla stregua di una vera e propria sanatoria contabile. A conti fatti, è emerso quindi a livello nazionale un buco complessivo compreso tra i 12 e i 15 miliardi di euro (di 853 milioni è responsabile la sola Roma). Visto che questo disavanzo tecnico è il risultato di un obbligo di legge - forse una sorta di buco legalizzato? - il governo ha deciso di consentire ai Comuni di scorporarlo dai bilanci e di rimborsarlo in 30 anni, imputando nel passivo corrente di ogni anno soltanto una quota fissa di un trentesimo.  

L’effetto sperato in virtù della nuova normativa è quello di una maggiore cautela nella gestione dei conti, visti i maggiori rischi e difficoltà che un ricorso alla leva del debito può comportare per gli amministratori. In teoria, quindi, l’eventualità di nuovi dissesti dovrebbe essere scongiurata per il futuro. L’esperienza insegna però che, specialmente in Italia, tra teoria e realtà lo scarto può essere notevole. 


“Fondi scarsi, ma i sindaci facciano mea culpa” (Alessandro Cecioni, Le Inchieste de la Repubblica e L’Espresso, 12 ottobre 2016) Intervista ad un sindaco che, senza averne la colpa (i conti dissestati li ha ricevuti in eredità dalla precedente amministrazione), si è trovato (e tuttora si trova) a dover gestire un Comune in pre default. Il primo cittadino di Pescara, Marco Alessandrini di anni 46, appena insediato infatti ha dovuto chiedere per il suo Ente la “procedura di riequilibrio finanziario pluriennale”, contemplata dal Testo unico degli enti locali per quei Comuni che stanno andando verso il fallimento ma possono ancora sperare di salvarsi attraverso la ristrutturazione del proprio debito.  

Se da una parte le dolorose scelte obbligate che la procedura ha comportato - aumento delle tasse, tagli ai servizi, blocco del turnover del personale, zero investimenti - non gli hanno di certo giovato in popolarità, il sindaco può però vantarsi di non aver toccato i servizi alla persona, per scelta voluta, e di aver potuto rifondere integralmente i debiti ai creditori del Comune, evitando così di andare a colpire il tessuto produttivo del territorio. Diversamente sarebbe stato se il Comune avesse scelto la strada del dissesto finanziario, per certi aspetti più comoda di quella del riequilibrio, perché in tal caso sarebbe stato il commissario nominato dal ministero a gestire il debito del Comune con offerte al ribasso ai creditori.  

L’accesso al fondo di rotazione - che assegna fino a 300 euro per abitante da restituire in 30 anni - ha consentito di rimpinguare le disastrate casse comunali - al momento dell’insediamento di Alessandrini non c’era di che pagare gli stipendi - con circa 33 milioni e mezzo, consentendo per l’appunto di pagare i creditori. Secondo il sindaco poi, questa crisi può rappresentare anche un’opportunità - non a caso, rileva, in cinese si usa lo stesso ideogramma per le due parole - spingendo il Comune ad un repentino cambio di rotta. Alcuni risultati sono già visibili: la Tari è già calata grazie all’aumento della quota di raccolta differenziata; il pagamento anticipato alla società partecipata del Comune consente a questa di non chiedere soldi in banca e di risparmiare così circa due milioni di interessi; la sostituzione delle lampadine delle scuole ha consentito un risparmio del 75% in bolletta.  

Infine, sulle cause che hanno portato il suo e altri Comuni sull’orlo del default, Alessandrini cita sicuramente i mancati trasferimenti statali, quasi azzerati nel periodo 2010-2015 (Pescara è passata da 30 a 3 milioni), ma soprattutto il fatto di non aver adottato per tempo delle contromisure adeguate, con razionalizzazioni della spesa e risparmi strutturali. Si è invece scelto di continuare a spendere con il meccanismo delle previsioni gonfiate delle entrate fin quando, le nuove regole di bilancio, hanno fatto giungere tutti i nodi al pettine. Inoltre si è speso male e in maniera incontrollata, soprattutto all’approssimarsi di nuove elezioni, e continua a pesare la cronica incapacità dei Comuni di incassare i crediti dovuti, con punte che arrivano anche ad un 50-60% in meno. 

Il cammino del Comune di Pescara, secondo il sindaco, è comunque ormai segnato: se la somma tra residui attivi e passivi nel 2014 arrivava a 300 milioni, ora si è passati a 140 e più della metà dei 160 milioni di differenza sono stati pagati o riscossi. In cassa ci sono 6 milioni e mezzo di euro contro il milione del 2014, i creditori prima venivano pagati in 6-7 mesi contro i 75 giorni necessari per incassare adesso. Infine, il debito per abitante nel 2013 era di 1.344 euro e adesso è sceso a 1.134. “La ristrutturazione del debito è per i nostri figli” - chiosa il sindaco - “le scelte di oggi hanno un orizzonte di 10 anni per alcuni aspetti, e di 30 anni per altri”.

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