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Gli errori della Cassazione sull’anzianità di servizio – La mobilità è solo analoga alla cessione di contratto
Servizi Comunali Inquadramento MobilitàApprofondimento di Luigi Oliveri
Gli errori della Cassazione sull’anzianità di servizio – La mobilità è solo analoga alla cessione di contratto
Luigi Oliveri
L’ordinanza della Corte di Cassazione, Sezione Lavoro, 5 giugno 2019, n. 15281 è l’ennesima dimostrazione dell’errore commesso oltre 20 anni fa dal legislatore di attribuire al giudice ordinario la giurisdizione sul rapporto di lavoro pubblico, prima attribuita in via esclusiva al Tar.
Il giudice del lavoro, compresa la Cassazione, non conosce le dinamiche peculiari del lavoro pubblico, che costituisce un diritto del tutto speciale e imparagonabile al diritto del lavoro nelle aziende private.
Il caso esaminato dalla Corte suprema è esemplare: si riscontra, infatti, una confusione estrema in merito all’istituto dell’anzianità di servizio.
Due dipendenti assunti dal comune di Roma in mobilità volontaria hanno chiesto l’annullamento o la disapplicazione del provvedimento dirigenziale col quale era stata loro revocata l'attribuzione della classe economica superiore, a seguito di progressione orizzontale, giustificata dalla circostanza che all’epoca i due non disponessero del presupposto dell'anzianità di servizio di almeno un anno nella posizione economica inferiore alle dipendenze del Comune di Roma. Mentre il giudice di primo grado aveva accolto la domanda, la Corte d’appello l’aveva respinta.
Col ricorso in Cassazione, gli interessati hanno evidenziato l’errore nel quale sarebbe incorsa la Corte territoriale nell'escludere la continuità giuridica in caso di mobilità volontaria, prevista dall’articolo 30 de d.lgs 165/2001. Ricordiamo la questione della “continuità giuridica”, per la seconda parte di questo scritto. I ricorrenti hanno anche impugnato l’articolo del contratto decentrato integrativo regolante le progressioni, evidenziando che esso andava interpretato nel senso di dare rilievo anche alla precedente anzianità acquisita da dipendenti transitati in mobilità da altri enti, sul presupposto che la norma pattizia non faccia alcun espresso riferimento all'anzianità maturata presso il comune di Roma.
La Cassazione rigetta il ricorso, con una serie di argomentazioni, condivisibili solo nell’impostazione generale, ma del tutto erronee nella ricostruzione dell’istituto della progressione orizzontale.
Afferma l’ordinanza che il mantenimento del trattamento economico e normativo, assicurato ai dipendenti transitati in mobilità, non implica “la parificazione con i dipendenti già in servizio presso il datore di lavoro di destinazione (v. Cass. 3 agosto 2007 n. 17081; Cass. 17 luglio 2014, n. 16422); la prosecuzione giuridica del rapporto, infatti, se da un lato rende operante il divieto di reformatio in peius, dall'altro non fa venir meno la diversità fra le due fasi di svolgimento del rapporto medesimo, diversità che può essere valorizzata dal nuovo datore di lavoro, sempre che il trattamento differenziato non implichi la mortificazione di un diritto già acquisito dal lavoratore”.
Di conseguenza, l'anzianità di servizio può essere salvaguardata solo allo scopo di conservare in capo al dipendente i benefici economici di cui godeva nel precedente rapporto di lavoro e, quindi, solo se il mancato riconoscimento della pregressa anzianità comportasse un peggioramento del trattamento retributivo in precedenza goduto dal lavoratore trasferito.
Al contrario, l’anzianità di servizio non costituisce titolo per poter pretendere, dal nuovo datore di lavoro, incrementi retributivi dei quali il lavoratore non godesse nel precedente rapporto di lavoro; infatti, spiega la Cassazione che l’anzianità “di per sé non costituisce un diritto che il lavoratore possa fare valere nei confronti del nuovo datore”.
Se in termini generali il ragionamento può considerarsi condivisibile, esso, tuttavia, perde totalmente rilevanza e pregnanza se si considera che erroneamente la Cassazione ha considerato corretta la previsione del contratto decentrato del comune di Roma.
A ben vedere, anche i ricorrenti hanno impostato la loro vertenza in modo erroneo, perché non è stato centrato il vero problema, consistente nell’illiceità della considerazione dell’anzianità di servizio alla stregua di criterio per acquisire la progressione orizzontale.
Lo hanno già spiegato più volte Aran e Corte dei conti. L’Aran (RAL1013_Orientamenti Applicativi), afferma che le progressioni orizzontali debbono essere attivate “senza alcuna forma di automatismo (in proposito si ricorda che l’esperienza non si identifica con la mera anzianità di servizio, in quanto designa l’insieme delle cognizioni e delle abilità acquisite dal lavoratore in un determinato numero di anni lavorativi, che, naturalmente, deve essere sempre verificata attraverso il ricorso ad adeguati sistemi di valutazione)”.
E la Corte dei conti, per voce della Sezione giurisdizionale per la Basilicata, 13 maggio 2010, n. 123, aggiunge: “La verifica delle concrete modalità con le quali è stata data attuazione alle progressioni orizzontali evidenzia, infatti, come sia stato completamente obliterato il criterio della selezione meritocratica – o di una comparazione ispirata alla valutazione della professionalità effettiva o della qualificazione – in favore, invece, di una plateale ed ingiustificata “corresponsione a pioggia” dei miglioramenti stipendiali, realizzata attraverso una indiscriminata valutazione del mero dato dell’anzianità pregressa maturata nella ex qualifica di appartenenza. Il predetto requisito non vale, “ex se”, a costituire criterio di attendibile e valida selezione del merito e delle singole capacità professionali, e tale da poter e dover essere premiato con l’incremento economico e stipendiale previsto e disciplinato dalla contrattazione nazionale. Nella gestione delle risorse finanziarie destinate al personale amministrativo e tecnico delle Università italiane, sì come consacrata negli accordi integrativi che, “in parte qua”, ne hanno disciplinato le modalità di attribuzione, costituisce “ius receptum” che tra i “Requisiti generali di partecipazione” venga previsto il possesso, in testa ai partecipanti, di un’anzianità di servizio di almeno tre anni nella posizione economica immediatamente inferiore rispetto a quella per la quale si chiede il passaggio. E che, ai fini del regolare esame delle professionalità da premiare, venga prevista – sotto la responsabilità di una commissione all’uopo istituita – una griglia di indicatori utili per la formazione dei punteggi che andranno a formare la graduatoria finale di merito. La necessità di individuare degli “indicatori di selezione” ai quali correlare un punteggio massimo per ogni categoria professionale se, da un lato, rende evidente l’esigenza di ancorare a parametri certi ed oggettivi la valutazione dei singoli aspiranti alla progressione, dall’altro lato denuncia ed ammette l’insufficienza e la “non esaustività” del mero dato dell’anzianità, indebitamente mutuato dalla norma pattizia del CCNL ad atteggiarsi quale utile criterio di selezione, peraltro in veste di esclusività, delle progressioni economiche”.
L’ordinanza della Cassazione ha preso, quindi, per buono che la progressione orizzontale possa connettersi all’anzianità e da qui ha preso le mosse per affermare che il nuovo datore di lavoro abbia la possibilità di riservare il conteggio dell’anzianità pregressa a chi abbia svolto direttamente alle proprie dipendenze una certa attività, senza considerare quindi l’anzianità maturata altrove.
Peccato che si tratti di una ricostruzione totalmente sbagliata: la progressione orizzontale, come meglio spiega l’articolo 16 del Ccnl 21.5.2019, ma come risultava chiaramente anche dal Ccnl 31.3.1999, può considerare, come criteri per il passaggio, l’esperienza professionale, ma non certo l’anzianità.
Aran e Corte dei conti hanno individuato le ragioni per le quali nel lavoro pubblico l’anzianità non può fondare un incremento del trattamento economico.
Purtroppo, per l’ennesima volta si riscontra un insanabile contrasto tra magistratura contabile e magistratura ordinaria rispetto ad un tema che concerne il lavoro pubblico. Ma, questa volta non si può che rilevare il clamoroso errore degli ermellini.
Se, come avrebbe dovuto essere, il comune di Roma avesse dato rilievo all’esperienza professionale, i dipendenti transitati da altro ente ben avrebbero potuto partecipare ad una procedura che, come da sempre prevedono i contratti e il d.lgs 150/2009, è competitiva. L’esperienza professionale, se valutata in base alla formazione ricevuta, ai risultati conseguiti e alle valutazioni ottenute, oltre che agli incarichi rivestiti, costituisce un patrimonio della persona del lavoratore, che non si modifica quindi nel suo passaggio da un ente all’altro.
Il meccanismo, invece, automatico dell’anzianità (considerato giustamente causa di danno erariale dalla magistratura contabile) può portare al parossismo dell’esclusione di un lavoratore dotato di qualificata esperienza da procedure di progressione connesse alla mera anzianità interna.
La Cassazione ha del tutto omesso di verificare la liceità del contratto decentrato del comune di Roma e ha fatto passare per corretta una procedura totalmente viziata dalle fondamenta. Ammettendo ciò che nel lavoro pubblico è stato eliminato dal 1992: appunto, l’anzianità. Se questa fosse il presupposto delle progressioni, allora non vi sarebbe alcuna necessità della competizione meritocratica invece pretesa sia dai contratti nazionali collettivi, sia, soprattutto, dal d.lgs 150/2009.
Ma, l’ordinanza conferma anche il travisamento nel quale incorrono in moltissimi, tanto in dottrina, quanto in giurisprudenza, relativamente all’istituto della mobilità. La tesi ricorrente è che questo coincida in tutto e per tutto con la cessione del contratto regolata dal codice civile e che il cedente sia il comune dal quale il dipendente, ceduto, transita per poi prendere servizio nell’ente di destinazione, cessionario.
E’ una ricostruzione totalmente errata, che pure viene proposta en passant proprio dall’ordinanza della Cassazione in commento. Essa, infatti, per corroborare il proprio ragionamento sull’anzianità come diritto al mantenimento del trattamento economico, ma non ad ottenere incrementi, cita in modo del tutto fuorviante la sentenza 6 aprile 2017 in causa C-336/15 della Corte di Giustizia Ue, che al punto 21 afferma: “sebbene l’anzianità maturata presso il cedente non costituisca, di per sé, un diritto di cui i lavoratori trasferiti possano avvalersi nei confronti del cessionario, ciò nondimeno essa serve, se del caso, a determinare taluni diritti pecuniari dei lavoratori, che pertanto devono essere salvaguardati, in linea di principio, dal cessionario allo stesso modo del cedente (v. sentenza del 6 settembre 2011, Scattolon, C‑108/10, EU:C:2011:542, punto 69 e giurisprudenza ivi citata)”.
Questo capo della sentenza, estrapolato dal contesto, pare confermare che appunto l’ente di provenienza sia il cedente, il dipendente il ceduto e l’ente di destinazione il cessionario.
Tuttavia, detta sentenza della CGUE ha come oggetto “il ravvicinamento delle legislazioni degli Stati membri relative al mantenimento dei diritti dei lavoratori in caso di trasferimenti di imprese, di stabilimenti o di parti di imprese o di stabilimenti”.
Si tratta di una fattispecie completamente diversa dalla mobilità nel lavoro pubblico. Infatti, nel caso esaminato dalla CGUE è effettivamente il lavoratore il ceduto, mentre le aziende svolgono il ruolo di cedente e cessionario. Ma, nel caso di specie accade che in uno stesso stabilimento, ove il lavoratore ceduto continua a svolgere la propria attività, si succedono due diversi datori.
Nel caso della mobilità non è così: il lavoratore passa da uno “stabilimento”, ma meglio dire da una persona giuridica e da una sede logistica a diversa persona giuridica e diversa sede logistica.
Nel caso della mobilità, quindi, non è il datore di lavoro la parte cedente, ma è il lavoratore; è l’ente di provenienza il ceduto, mentre l’ente di destinazione è il cessionario.
L’ordinanza della Cassazione ne è involontaria dimostrazione. Se davvero fosse l’ente di provenienza il cedente, allora il dipendente dovrebbe conservare intatta la posizione giuridica maturata presso di esso, per poterla vantare avanti all’ente cessionario, qualora i presupposti ed i criteri per le progressioni orizzontali fossero identici: e, l’anzianità, in quanto evento legato solamente al decorso del tempo e privo – nel lavoro pubblico – di qualsiasi elemento retributivo (almeno dal 1993 in poi) non potrebbe non essere considerata come linea di carriera appartenente alla persona e, quindi non collegabile alla maturazione presso il solo ente di destinazione.
L’ordinanza della Cassazione, quindi, è due volte erronea: prima, perché ammette che la progressione orizzontale possa fondarsi sull’anzianità; poi, perché ricostruisce in maniera opposta alla corretta ricostruzione la mobilità tra enti, ma confermando che l’ente di destinazione comunque può regolare il rapporto in modo molto diverso rispetto all’ente di provenienza, il che dimostra l’inesattezza della tesi che vede ceduto il contratto del dipendente in totale continuità tra un ente e l’altro.
Nella realtà, la mobilità è un istituto di diritto pubblico in parte analogo alla cessione del contratto, perché richiede il consenso trilaterale; ma esso, lungi dal prevedere una mera novazione soggettiva del datore, è un sistema di reclutamento rivolto a chi è già dipendente da altre pubbliche amministrazioni ed ottenga il nulla osta al trasferimento, dovendo necessariamente accettare novazioni oggettive alla propria disciplina del rapporto di lavoro: dalla sede, all’orario, alle regole di disciplina su privacy, sicurezza ed anticorruzione, passando anche per specifiche regolamentazioni pattizie (incidenti anche sulle posizioni individuali) riferite alle progressioni orizzontali, come anche ad altri istituti connessi al sistema di valutazione o propriamente contrattuali (percentuali di part time ammesse, flessibilità oraria e così via).
18 giugno 2019
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