Le convenzioni di edilizia agevolata e i vincoli alla disponibilità degli immobili dei privati

Approfondimento di Eugenio De Carlo

Servizi Comunali Attività edilizia
di De Carlo Eugenio
21 Settembre 2018

Approfondimento di Eugenio De Carlo                                                                             

LE CONVENZIONI DI EDILIZIA AGEVOLATA E I VINCOLI ALLA DISPONIBILITA’ DEGLI IMMOBILI DEI PRIVATI

Eugenio De Carlo

Il tema degli atti dispositivi di alloggi derivanti da convenzioni in materia di edilizia agevolata  tra Comuni e consorzi, cooperative e privati del settore sta assumendo una sempre maggiore importanza sia per i riflessi civilistici in caso di contenzioso tra le parti private che dispongono dei beni discendenti dalle anzidette covenzioni, sia per i profili di responsabilità erariale dei comuni in ordine alla corretta gestione delle convenzione, specialmente in ordine al rispetto dei limiti dalle stesse previste nei confronti dei privati in ragione delle finalità sociali sulla base delle quali sono state approvate e sottoscritte dai Comuni.

La questione riguarda essenzialmente le convenzioni basate sulle previsioni dell’art. 35 legge 865 del 1971, della successiva legge n. 179 del 1992, come modificata dalla legge n. 85 del 1994, della legge n. 662 del 1996 e sul d.l. n. 70 del 2011, convertito con modificazioni con legge n. 106/2011.

In base alle disposizioni recate dalle suddette leggi occorre distinguere, quindi, tra a) convenzioni ex art. 35 l. n. 865 stipulate anteriormente all’entrata in vigore della legge n. 179 del 1992 (15 marzo 1992) e b) convenzioni stipulate posteriormente a detto momento (cfr. Cons. Stato, Sez. IV, sent. n. 5300/2018).

Nel primo caso, i vincoli all’alienazione contenuti hanno piena efficacia nel primo quinquennio, mentre nel prosieguo, possono essere rimossi, a titolo oneroso, previa stipula di un’ulteriore convenzione con il Comune, cui peraltro spetta di individuare gli elementi di calcolo della misura del corrispettivo che l’interessato deve versare. In ordine a questo aspetto la Cassazione civile (Sez. II, sent. n. 13345/2018; S.U. sent. n. 18135/2015) ha stabilito il principio di diritto secondo cui "il vincolo del prezzo massimo di cessione dell'immobile in regime di edilizia agevolata ex art. 35 della I. n. 865 del 1971, qualora non sia intervenuta la convenzione di rimozione ex art. 31, comma 49 bis, della I. n. 448 del 1998, segue il bene nei passaggi di proprietà, a titolo di onere reale, con efficacia indefinita, attesa la "ratio legis" di garantire la casa ai meno abbienti, senza consentire operazioni speculative di rivendita". In particolare, la Suprema Corte ha sottolineato la differenza tra le convenzioni cc.dd. "P.E.E.P." (di cui all'art. 35 della legge n. 865/1971) e la c.d. "legge Bucalossi" (artt. 7 e 8, L. n. 19/1977, oggi inseriti nell'art. 18 del d.P.R. n. 380/2001), chiarendo che solo per quest'ultima sarebbe possibile affermare che unico destinatario di obblighi e divieti è il costruttore/concessionario, per espressa formulazione di legge, mentre così non è per le convenzioni P.E.E.P., ove la norma non indirizza gli obblighi al solo costruttore, bensì erga omnes. Da ciò consegue che, per le convenzioni P.E.E.P., i prezzi imposti sono vincolanti per tutti gli aventi causa, a prescindere dal decorso del tempo. In questo senso, la legge 13 maggio 2011, n. 70 (art. 5, comma 3 bis) ha previsto al comma 49 bis dell'art. 31 della legge 23 dicembre 1998, n. 448, che il vincolo del prezzo massimo di cessione contenuto in una convenzione P.E.E.P. può essere rimosso, a richiesta del proprietario dell'alloggio, trascorsi cinque anni dalla data del primo trasferimento, mediante una apposita convenzione stipulata con il Comune, da redigere in forma pubblica e soggetta a trascrizione, contestualmente al versamento di un corrispettivo determinato dal Comune medesimo secondo i parametri indicati nella legge ossia “per un corrispettivo proporzionale alla corrispondente quota millesimale, determinato, anche per le unità in diritto di superficie, in misura pari al 60 per cento di quello determinato attraverso il valore venale del bene, con la facoltà per il comune di abbattere tale valore fino al 50 per cento, al netto degli oneri di concessione del diritto di superficie, rivalutati sulla base della variazione, accertata dal l'ISTAT, dell'indice dei prezzi al consumo per le famiglie di operai e impiegati verificatasi tra il mese in cui sono stati versati i suddetti oneri e quello di stipula dell'atto di cessione delle aree. Comunque il costo dell'area così determinato non può essere maggiore di quello stabilito dal comune per le aree cedute direttamente in diritto di proprietà ai momento della trasformazione. La percentuale è stabilita, anche con l'applicazione di eventuali riduzioni in relazione alla durata residua del vincolo, con decreto di natura non regolamentare del Ministro dell'economia e delle finanze, previa intesa con la Conferenza unificata ai sensi dell'articolo 3 del decreto legislativo 28 agosto 1997, n. 281.”

La mancanza di un'apposita convenzione di rimozione del vincolo del prezzo quantificato in base a quella originaria ai sensi del richiamato art. 31, comma 49-bis, della legge n. 448/1998, quindi, comporta la nullità parziale dell’alienazione del bene - operante per violazione di una norma imperativa - rilevabile d'ufficio e, ovviamente, anche su eccezione del cessionario dell'alloggio, con tutte le conseguenze che ne derivano ai fini del riconoscimento del diritto degli acquirenti ad ottenere la restituzione del maggior prezzo versato rispetto a quello massimo di cessione scaturito dall'applicazione dei criteri stabiliti dalla presupposta convenzione. Ciò attesa la "ratio legis" di garantire la casa ai meno abbienti ed impedire operazioni speculative di rivendita; in tal caso, pertanto, la clausola negoziale contenente un prezzo difforme da quello vincolato è affetta da nullità parziale e sostituita di diritto, ex artt. 1419, comma 2, e 1339 c.c., con altra contemplante il prezzo massimo determinato in forza della originaria convenzione di cessione.

Rispetto a queste ipotesi, dunque, assume rilievo la posizione dei comuni finalizzata al rispetto del principio affermato dalla Cassazione ossia di consentire il diritto alla casa, facilitando l'acquisizione di alloggi a prezzi contenuti ai ceti meno abbienti e non certo quella di consentire successive operazioni speculative di rivendita a prezzo di mercato.

Nel secondo caso, i vincoli all’alienazione hanno efficacia limitata solamente al primo quinquennio e, comunque, sono superabili “previa autorizzazione della regione, quando sussistano gravi, sopravvenuti e documentati motivi”, anche se - come precisato dalla giurisprudenza - l’ordinamento non pone il divieto della previsione convenzionale di limiti all’alienazione diversi e ulteriori rispetto allo standard vincolistico suddetto (cfr. Cons. Stato, sent. n. 5300/2108 cit.). Infatti, anche se l’art. 35, l. 22 ottobre 1971, n. 865, nel testo modificato dalla legge 17 febbraio 1992, n. 179, ha ridotto da 20 a 5 anni - decorrenti dalla data del rilascio della licenza di abitabilità - i limiti inderogabili all'alienazione successiva dell'immobile di edilizia residenziale pubblica sovvenzionato, con la convenzione il comune, potendo pattuire che dopo i cinque anni l'immobile sia venduto solo a chi ha i requisiti per ottenere un alloggio agevolato, può di fatto introdurre limiti convenzionali alla successiva alienazione da parte dell'assegnatario.

Pertanto, gli uffici tecnici comunali dovranno tenere conto del suddetto spartiacque temporale tra le convenzioni in materia ed applicare il diverso regime così come attualmente intepretato dalla giurisprudenza delle supreme giurisdizioni civile e amministrativa.

15 settembre 2018

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