Il principio del ne bis in idem nel procedimento tributario
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Due dei principi cardine dell’ordinamento tributario nazionale, come delineato nel corso della riforma degli anni Settanta, sono quelli dell’unicità e della globalità dell’accertamento, che vorrebbero che, per ogni possibile violazione, il contribuente fosse gravato da una, e una sola, procedura accertativa.
La ratio sottesa a tali principi è di immediata comprensione: individuare un argine alla discrezionalità dell’azione della pubblica amministrazione per evitare che travalichi nell’ “abuso di potere” e tutelare di conseguenza il contribuente o, meglio, il suo diritto di difesa, che da una “parcellizzazione” delle pretese impositive risulterebbe gravemente compromesso.
È altrettanto vero che il nostro è un sistema estremamente complesso e che l’applicazione rigorosa, senza eccezione alcuna, del principio del “ne bis idem” risulta di fatto non praticabile o, quanto meno, foriera di distorsioni. Infatti, se da un lato vi sono i principi di certezza del diritto, del legittimo affidamento e del giusto processo, dall’altro vi sono gli, altrettanto meritevoli di tutela, principi della capacità contributiva e della buona gestione pubblica, che possono giustificare l’emissione da parte della Pubblica Amministrativa di un secondo avviso di accertamento in riferimento ad una medesima violazione.
Ed è proprio al fine di trovare un bilanciamento tra i diversi interessi in gioco che sono state introdotte due eccezioni ai principi di unità e globalità dell’accertamento, ovvero l’accertamento parziale e l’accertamento integrativo.
L’accertamento parziale
L’istituto dell’accertamento parziale è disciplinato dall’art. 41bis DPR n. 600/1973 che così recita: “Senza pregiudizio dell'ulteriore azione accertatrice nei termini stabiliti dall'art. 43, i competenti uffici dell'Agenzia delle entrate, qualora dalle attività istruttorie di cui all'articolo 32, primo comma, numeri da 1) a 4), nonchè dalle segnalazioni effettuati dalla Direzione centrale accertamento, da una Direzione regionale ovvero da un ufficio della medesima Agenzia ovvero di altre Agenzie fiscali, dalla Guardia di finanza o da pubbliche amministrazioni ed enti pubblici oppure dai dati in possesso dell'anagrafe tributaria, risultino elementi che consentono di stabilire l'esistenza di un reddito non dichiarato o il maggiore ammontare di un reddito parzialmente dichiarato, che avrebbe dovuto concorrere a formare il reddito imponibile, compresi i redditi da partecipazioni in società, associazioni ed imprese di cui all'art. 5 del testo unico delle imposte sui redditi, approvato con decreto del Presidente della Repubblica 22 dicembre 1986, n. 917, o l'esistenza di deduzioni, esenzioni ed agevolazioni in tutto o in parte non spettanti, nonchè l'esistenza di imposte o di maggiori imposte non versate, escluse le ipotesi di cui agli articoli 36-bis e 36-ter, possono limitarsi ad accertare, in base agli elementi predetti, il reddito o il maggior reddito imponibili […]” .
L’accertamento parziale è quindi lo strumento con cui il Fisco è messo nella possibilità di ripetere la procedura di accertamento nei confronti dello stesso contribuente per la medesima annualità.
Come ha oramai chiarito da tempo la giurisprudenza di legittimità, l’accertamento parziale non è un metodo di accertamento a sé, ma semplicemente una diversa modalità di esplicazione della procedura accertativa che rimane sempre unica e uguale. Si deve pertanto concludere che anche l’accertamento parziale può fondarsi sulla base di sole presunzioni.
Da quanto appena esposto si comprende quanto “insidioso” e “pericoloso” risulti per il contribuente l’accertamento parziale.
L’avviso di accertamento parziale lascia infatti libera l’Amministrazione di emanare un secondo avviso di accertamento, ad integrazione o modifica del contenuto del primo avviso, sulla base di elementi nuovi rispetto a quelli acquisiti nelle verifiche precedenti all’emissione del primo accertamento ovvero semplicemente sulla base di informazioni diverse da quelle che si è ritenuto di valorizzare con il primo atto.
L’accertamento integrativo
L’accertamento integrativo è contemplato in due norme del nostro ordinamento, che ben potremmo definire “gemelle”, ovvero l’art. 43, c.3, DPR n. 600/1973 e l’art. 57, c.4, DPR n. 633/1972.
La prima norma citata, in materia di imposte dirette, così recita: “Fino alla scadenza del termine stabilito nei commi precedenti l'accertamento può essere integrato o modificato in aumento mediante la notificazione di nuovi avvisi, in base alla sopravvenuta conoscenza di nuovi elementi da parte dell'Agenzia delle entrate. Nell'avviso devono essere specificamente indicati, a pena di nullità, i nuovi elementi e gli atti o fatti attraverso i quali sono venuti a conoscenza dell'ufficio delle imposte”.
La seconda norma, in materia di i.v.a., dispone che “Fino alla scadenza del termine stabilito nei commi precedenti le rettifiche e gli accertamenti possono essere integrati o modificati, mediante la notificazione di nuovi avvisi, in base alla sopravvenuta conoscenza di nuovi elementi da parte dell'Agenzia delle entrate. Nell’avviso devono essere specificamente indicati, a pena di nullità, i nuovi elementi e gli atti o fatti attraverso i quali sono venuti a conoscenza dell'ufficio dell'imposta sul valore aggiunto”.
Come si legge chiaramente, l’emissione di un accertamento integrativo è subordinato, a pena di nullità, alla inderogabile presenza di un preciso requisito, ovvero: la sopravvenuta conoscenza - solo in un momento successivo al primo accertamento - di nuovi elementi tali da modificare l’originaria pretesa impositiva.
Al ricorrere di tale presupposto potrà essere emanato un atto che va non a sostituire l’accertamento precedente ma, piuttosto, ad integrarlo.
Per interpretazione giurisprudenziale oramai costante in materia, gli elementi da porsi a base dell’accertamento integrativo non solo non dovevano essere già in possesso della Pubblica Amministrazione al momento dell’emanazione del primo accertamento ma non dovevano essere nemmeno conoscibili. L’ufficio non potrebbe quindi emanare un avviso integrativo legittimo qualora i “nuovi” elementi indicati fossero già nella sua disponibilità al momento dell’emissione del primo accertamento ma non fossero stati considerati rilevanti ai fini della quantificazione della pretesa impositiva.
La sentenza della Corte di Cassazione n. 2726/2023
Per quanto in questa sede più interessa, il Legislatore non ha fatto alcun riferimento all’accertamento integrativo in materia di tributi locali.
L’art. 1, c. 161, L. n. 296/2006 (cd. Legge finanziaria 2007), che ha provveduto ad unificare la disciplina dell’accertamento e della riscossione per i tributi locali, si limita a prevedere che “gli enti locali, relativamente ai tributi di propria competenza, procedono alla rettifica delle dichiarazioni incomplete o infedeli o dei parziali o ritardati versamenti, nonché all'accertamento d'ufficio delle omesse dichiarazioni o degli omessi versamenti, notificando al contribuente, anche a mezzo posta con raccomandata con avviso di ricevimento, un apposito avviso motivato. Gli avvisi di accertamento in rettifica e d'ufficio devono essere notificati, a pena di decadenza, entro il 31 dicembre del quinto anno successivo a quello in cui la dichiarazione o il versamento sono stati o avrebbero dovuto essere effettuati”.
La Corte di Cassazione con la sentenza n. 2726 del 25.09.2023 ha statuito che “non sono applicabili alla fattispecie in esame le disposizioni previste dal D.P.R. n. 633 del 1972, art. 57, comma 4 e dal D.P.R. n. 600 del 1973, art. 43, comma 3, che consentono di superare il principio dell'unicità e globalità dell'accertamento soltanto quando, a garanzia del contribuente, emerga che l'Amministrazione ha successivamente avuto conoscenza di altri elementi di fatto, nuovi rispetto a quelli posti a fondamento del primo avviso, in quanto trattasi di norme poste unicamente in tema di IVA e di imposte dei redditi; ne consegue che le disposizioni di cui alla L. n. 296 del 2006, art. 1, comma 161, fanno salva ogni ulteriore azione di accertamento dell'ente locale nei termini di decadenza previsti, senza alcun riferimento a pretese dell'ente impositore che si basino su fonti diverse da quelle prese a base dall'accertamento parziale […]”.
La conseguenza del principio affermato dalla Suprema Corte è che i Comuni possono emettere avvisi di accertamento integrativo senza alcun limite, ovvero anche sulla base di elementi che erano già noti all’ente, o comunque per esso conoscibili, al momento dell’emissione dell’avviso di accertamento originario.
La pronuncia appena richiamata ha suscitato un certo scalpore, con conseguenti commenti critici da più parti, in ragione dell’evidente vulnus che l’applicazione del principio espresso arrecherebbe al diritto di difesa del contribuente.
Il nuovo art. 9 bis dello Statuto del contribuente
L’ articolo 1, comma 1, lettera i), del D.Lgs. 30 dicembre 2023, n. 219 ha introdotto nella Legge n, 212/200, cd. Statuto del contribuente, l’art. 9bis che così recita: “Salvo che specifiche disposizioni prevedano diversamente e ferma l'emendabilità di vizi formali e procedurali, il contribuente ha diritto a che l'amministrazione finanziaria eserciti l'azione accertativa relativamente a ciascun tributo una sola volta per ogni periodo d'imposta”.
La norma è entrata in vigore il 18.01.2024.
La neo-introdotta previsione normativa risponde a quella che era un’esigenza avvertita da tempo, ovvero la cristallizzazione, in modo espresso ed inequivocabile, del principio del ne bis in idem nel procedimento tributario.
La norma fa salve le eccezioni al principio di unicità dell’accertamento normativamente disciplinate ma ne impone una interpretazione stringente.
Ciò significa che resta ferma la modalità di accertamento parziale di cui all’art. 41bis DPR n. 600/73 e l’istituto dell’accertamento integrativo di cui agli artt. 43 DPR n. 600/73 e 57 del DPR n. 633/72 ma ne impedisce qualsivoglia interpretazione estensiva.
La norma ha voluto evidentemente rendere maggiormente concreti ed effettivi i principi di certezza e stabilità dei rapporti giuridici, di buon andamento della Pubblica Amministrazione, di non aggravamento del procedimento e del diritto di difesa del contribuente, tutti principi che hanno rilevanza costituzionale.
È facilmente intuibile, quindi, come la nuova norma metta in crisi la tenuta del principio formulato dalla Suprema Corte con la sentenza n. 2726 del 25.09.2023, sopra commentata, che lasciava liberi gli enti locali di procedere senza restrizione alcuna ad accertamenti integrativi in relazione ai tributi di competenza.
D’ora in avanti, le amministrazioni locali dovranno riversare nell’atto di accertamento tutte le informazioni che sono loro note o sono per loro conoscibili con l’attività istruttoria, non avendo più una “seconda carta” da giocare.
Il nuovo art. 9 bis lascia comunque ferma l’“emendabilità di vizi formali e procedurali”.
Ne consegue che l’amministrazione potrà annullare in autotutela un atto affetto da vizi formali e di procedura, per riemetterne un altro formalmente corretto, purchè entro il termine di decadenza. L’amministrazione, invece, non potrà più utilizzare lo stratagemma dell’autotutela per emendare errori di tipo sostanziale.
La modifica normativa ci lascia in ogni caso con una domanda, ovvero: potranno gi enti locali avvalersi dell’istituto dell’accertamento integrativo rispettando i rigidi presupposti individuati dagli artt. 43 DPR n. 600/73 e 57 del DPR n. 633/72? Oppure, in ragione della stretta interpretazione che a tali norme speciali deve essere riservata, gli enti locali si vedranno negata tout court tale possibilità?
Attesa la recentissima entrata in vigore della norma, per rispondere alla domanda non possiamo che aspettare le prime pronunce giurisprudenziali sul punto.
Articolo di Lorella Martini
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INPS – 5 giugno 2025
ARAN – Orientamento applicativo Funzioni Locali pubblicato in data 4 giugno 2025 – Id: 34441
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