Scarichi idrici provenienti dalle attività di autolavaggio

Autorizzazione Unica Ambientale, illeciti e sanzioni

Servizi Comunali Attività commerciali Rifiuti Tutela ambientale Tutela salute pubblica
di Alborino Gaetano
15 Gennaio 2024

 

La nozione di scarico idrico
L’articolo 74, comma 1, lett. ff), d.lgs. 3 aprile 2006 n. 152 (cd. “Testo Unico dell’Ambiente”), definisce scarico: «qualsiasi immissione effettuata esclusivamente tramite un sistema stabile di collettamento che collega senza soluzione di continuità il ciclo di produzione del refluo con il corpo ricettore in acque superficiali, sul suolo, nel sottosuolo e in rete fognaria, indipendentemente dalla loro natura inquinante, anche sottoposte a preventivo trattamento di depurazione».
La giurisprudenza di legittimità, con orientamento costante e consolidato, ha chiarito che, ai sensi dell'articolo 74, comma 1, lett. ff), d.lgs. 152/2006, per "scarico" deve intendersi «qualsiasi immissione effettuata esclusivamente tramite un sistema stabile di collettamento che collega senza soluzione di continuità il ciclo di produzione del refluo con il corpo ricettore in acque superficiali, sul suolo, nel sottosuolo e in rete fognaria, indipendentemente dalla loro natura inquinante, anche sottoposte a preventivo trattamento di depurazione. Sono esclusi i rilasci di acque previsti all'articolo 114» (ex multis: Corte di Cassazione, Sez. III, 22 febbraio 2012, n. 11419).
La disciplina delle acque di cui alla Parte Terza del d.lgs. n. 152/2006, è applicabile, pertanto, in tutti quei casi nei quali si è in presenza di uno scarico di acque reflue in uno dei corpi recettori di cui al citato articolo 74, comma 1, lett. ff), ed effettuato tramite condotta, tubazioni, o altro sistema stabile. In tutti gli altri casi - nei quali manchi il nesso funzionale e diretto delle acque reflue con il corpo recettore - si applicherà, invece, la disciplina sui rifiuti.
L’elemento qualificante di uno scarico è offerto dall’esistenza di un collegamento ininterrotto tra il luogo della produzione del refluo e il corpo ricettore che non richiede la presenza di una condotta in senso tecnico essendo sufficiente, al fine dell’applicabilità della disciplina sugli scarichi, la stabilità del collegamento tra ciclo di produzione e recapito finale (ex multis: Corte di Cassazione, Sez. III, 5 dicembre 2022, n. 45900).


La definizione di acque reflue nel Testo Unico dell’Ambiente
L’articolo 74 del d.lgs. 3 aprile 2006 n. 152, definisce tre tipologie di acque reflue:

  • acque reflue domestiche: acque reflue provenienti da insediamenti di tipo residenziale e da servizi e derivanti prevalentemente da metabolismo umano e da attività domestiche (comma 1, lett. g);
  • acque reflue industriali: qualsiasi tipo di acque scaricate da edifici od impianti in cui si svolgono attività commerciali o di produzione di beni, diverse dalle acque reflue domestiche e dalle acque meteoriche di dilavamento (comma 1, lett. h);
  • acque reflue urbane: acque reflue domestiche o il miscuglio di acque reflue domestiche, di acque reflue industriali ovvero meteoriche di dilavamento convogliate in reti fognarie, anche separate, e provenienti da agglomerato (comma 1, lett. i).

La distinzione tra acque reflue domestiche ed acque reflue industriali è dirimente non solo per l’aspetto autorizzatorio, ma soprattutto, per quello sanzionatorio, poiché solo uno scarico di acque reflue industriali non autorizzato potrà configurare il reato, sanzionato dall’articolo 137 del d.lgs. 3 aprile 2006, n. 152.


La nozione di acque reflue industriali
Nella nozione di acque reflue industriali rientrano tutti i reflui derivanti da attività che non attengono strettamente al prevalente metabolismo umano ed alle attività domestiche, atteso che a tal fine rileva la sola diversità del refluo rispetto alle acque domestiche (Corte di Cassazione, Sez. III, 5 febbraio 2009, n. 12865; Sez. III, 24 ottobre 2002, n. 42932). 
La definizione normativa degli scarichi di acque reflue industriali, in conformità alla disciplina contenuta nell'articolo 2 direttiva CEE 91/271, discende da qualità espresse in senso negativo, ossia dal fatto di essere diverse dalle acque reflue domestiche e da quelle meteoriche di dilavamento. 
A tale proposito, la Corte di Cassazione, Sez. III, 31 gennaio 2013, n. 4844, ha precisato come sia configurabile il reato di cui al d.lgs. n. 152/2006, art. 137, comma 1, qualora lo scarico riguardi acque reflue industriali, definite dall'articolo 74, lett. h), come qualsiasi tipo di acque reflue provenienti da edifici o installazioni in cui si svolgono attività commerciali o di produzione di beni, differenti qualitativamente dalle acque reflue domestiche e da quelle meteoriche di dilavamento, intendendosi per tali anche quelle venute in contatto con sostanze o con materiali, anche inquinanti.


Le acque reflue industriali “assimilate” alle acque reflue domestiche
L’articolo 101, comma 7, d.lgs. 3 aprile 1992 n. 152, assimila alle acque reflue domestiche, sottraendole peraltro all’eventuale disciplina sanzionatoria di rilievo penale, le seguenti acque reflue:

  • provenienti da imprese dedite esclusivamente alla coltivazione del terreno e/o alla silvicoltura;
  • provenienti da imprese dedite ad allevamento di bestiame;
  • provenienti da imprese dedite alle attività di cui alle lettere a) e b) che esercitano anche attività di trasformazione o di valorizzazione della produzione agricola, inserita con carattere di normalità e complementarità funzionale nel ciclo produttivo aziendale e con materia prima lavorata proveniente in misura prevalente dall’attività di coltivazione dei terreni di cui si abbia a qualunque titolo la disponibilità;
  • provenienti da impianti di acqua coltura e di piscicoltura che diano luogo a scarico e che si caratterizzino per una densità di allevamento pari o inferiore a 1 Kg per metro quadrato di specchio d’acqua o in cui venga utilizzata una portata d’acqua pari o inferiore a 50 litri al minuto secondo;
  • aventi caratteristiche qualitative equivalenti a quelle domestiche e indicate dalla normativa regionale;
  • provenienti da attività termali, fatte salve le discipline regionali di settore.

 

La natura giuridica delle acque reflue provenienti dalle attività di autolavaggio
Al fine di individuare le acque che derivano dalle attività produttive, occorre procedere a contrario, vale a dire escludendo le acque ricollegabili al metabolismo umano e provenienti dalla realtà domestica (Corte di Cassazione, Sez. III, 7 novembre 2012, n. 2340). 
È questo il caso degli impianti di autolavaggio - come evidenziato recentemente anche dalla Corte di Cassazione, Sez. III, 28 gennaio 2020, n. 3450 - i quali hanno natura di insediamenti produttivi e non di insediamenti civili, in considerazione della qualità inquinante dei reflui, diversa e più grave rispetto a quella dei normali scarichi da abitazioni, e per la presenza di residui quali oli minerali e sostanze chimiche contenute nei detersivi e nelle vernici eventualmente staccatesi dalle vetture usurate.
Data la natura di acque reflue industriali, un eventuale scarico senza autorizzazione sarebbe certamente idoneo a integrare la fattispecie di reato di cui all’articolo 137 del d.lgs. n. 152/2006. 


Il campionamento e l’analisi delle acque reflue non sono rilevanti ai fini della configurabilità del reato
Sono da considerare scarichi industriali, oltre ai reflui provenienti da attività di produzione industriale vera e propria, anche quelli provenienti da insediamenti ove si svolgono attività artigianali e di prestazione di servizi, quando le caratteristiche qualitative degli stessi siano diverse da quelle delle acque domestiche.
Ne consegue che devono pacificamente ritenersi rientranti nella nozione di acque reflue industriali quelle provenienti e scaricate, come nella specie, dal sistema di lavaggio di parti meccaniche di veicoli.
Tanto evidenziato, va dunque precisato che risulta irrilevante ai fini del reato di cui all’articolo 137, comma 1, del d.lgs. n. 152/2006, l’analisi, conseguente a campionamento, della specifica composizione del refluo, una volta appuratene, per il principio esposto, la natura industriale (Corte di Cassazione, Sez. III, 21 ottobre 2021, n. 37858).
Data la natura di reato di pericolo, non assume neanche rilievo dirimente la circostanza che i prelievi sullo scarico siano eventualmente nella norma, dovendo in ogni caso essere assicurato il preventivo controllo della P.A. 


L’autorizzazione allo scarico in rete fognaria delle acque reflue provenienti dagli autolavaggi
L'autorizzazione unica ambientale (A.U.A.) è il provvedimento istituito dal d.P.R. 13 marzo 2013, n. 59, rilasciato su istanza di parte, che incorpora in un unico titolo diverse autorizzazioni ambientali previste dalla normativa di settore. 
Il citato d.P.R. individua un nucleo base di sette autorizzazioni che possono essere assorbite dall'A.U.A., alle quali si aggiungono gli altri permessi eventualmente individuati da fonti normative di Regioni e Province autonome.
Il regolamento prevede in un unico provvedimento autorizzativo, l'autorizzazione unica ambientale, l’accorpamento dei seguenti titoli abilitativi:

  • Autorizzazione agli scarichi idrici di cui al Capo II del Titolo IV della Sezione II della Parte terza del decreto legislativo 3 aprile 2006, n. 152;
  • Comunicazione preventiva di cui all'articolo 112 del decreto legislativo 3 aprile 2006, n. 152, per l'utilizzazione agronomica degli effluenti di allevamento, delle acque di vegetazione dei frantoi oleari e delle acque reflue provenienti dalle aziende ivi previste;
  • Autorizzazione alle emissioni in atmosfera per gli stabilimenti di cui all'articolo 269 del decreto legislativo 3 aprile 2006, n. 152;
  • Autorizzazione generale alle emissioni in atmosfera di cui all'articolo 272 del decreto legislativo 3 aprile 2006, n. 152;
  • Comunicazione o nulla osta sull'impatto acustico di cui all'articolo 8, commi 4 o comma 6, della legge 26 ottobre 1995, n. 447;
  • Autorizzazione all'utilizzo dei fanghi derivanti dal processo di depurazione in agricoltura di cui all'articolo 9 del decreto legislativo 27 gennaio 1992, n. 99;
  • Comunicazioni in materia di rifiuti di cui agli articoli 215 e 216 del decreto legislativo 3 aprile 2006, n. 152.

L’A.U.A. è obbligatoria se si tratta di attività soggetta ad almeno una delle seguenti autorizzazioni:

  • Autorizzazione agli scarichi;
  • Autorizzazione alle emissioni in atmosfera in procedura ordinaria;
  • Autorizzazione all’utilizzo dei fanghi di depurazione in agricoltura.

L’A.U.A. è facoltativa se si tratta di attività soggette: 

  • Solo a comunicazioni; 
  • All’autorizzazione in via generale per le emissioni in atmosfera.

Nella seconda ipotesi, le imprese (facoltate) possono optare, per il regolare svolgimento dell’attività di che trattasi, tra l’A.U.A. e il titolo abilitativo richiesto dalla specifica normativa di settore.
Il regolamento individua la Provincia — salvo diverse indicazioni previste dalle normative regionali — quale Autorità competente al rilascio, rinnovo e aggiornamento dell'A.U.A., ribadendo il ruolo del Suap, quale unico punto di accesso per il richiedente in relazione a tutte le vicende amministrative riguardanti la sua attività produttiva, ai sensi del d.P.R. n. 160/2010.
La Provincia assume le funzioni di Autorità competente, con responsabilità sui contenuti dell'autorizzazione, assicurando anche una funzione di coordinamento tra le diverse competenze di settore interne cui fanno capo le specifiche attività istruttorie sulle singole componenti dell'A.U.A. (Ufficio d'ambito per gli scarichi in fognatura, Uffici acque per gli scarichi in corpo idrico, ecc.).
L'A.U.A., come disciplinata dal d.P.R. n. 59/2013, costituisce il titolo abilitativo per gli scarichi idrici. Dunque, anche quelli provenienti dagli autolavaggi.


La durata dell’autorizzazione unica ambientale
Sempre l’articolo 3 del d.P.R. n. 59/2013 stabilisce la durata dell’A.U.A. in quindici anni, prevedendo, per quanto riguarda la sola autorizzazione agli scarichi contenenti sostanze pericolose, la necessità di presentare ogni quattro anni una comunicazione intermedia sugli esiti degli autocontrolli.


L’autorizzazione allo scarico idrico non è surrogabile mediante modelli di semplificazione amministrativa
L’articolo 124, comma 1, d.lgs. n. 152/2006, enuncia il principio generale, per cui: «tutti gli scarichi devono essere preventivamente autorizzati».
Secondo una rigorosa spiegazione, la disposizione in esame esprime un principio generale che esclude possibili deroghe o taciti rinnovi delle autorizzazioni agli scarichi, e ciò anche in considerazione dei valori e degli interessi coinvolti.
L’articolo 124 del d.lgs. 152/06 prevede la necessaria, preventiva autorizzazione per tutti gli scarichi, indicando anche la procedura per il suo rilascio, e tale titolo abilitativo non può essere sostituito da equipollenti, quali i pareri o nulla osta dei servizi comunali, che rivestono natura meramente interna al provvedimento, né può essere assorbito implicitamente all’interno di una S.C.I.A. 
Come si desume dalla lettura degli articoli 124 e 125 del d.lgs. 152/06, il rilascio del titolo abilitativo presuppone una serie di adempimenti. Si pensi alla necessità dell’indicazione delle caratteristiche, anche tecniche, dello scarico e della sua destinazione finale (articolo 125, comma 1); alla possibilità di stabilire prescrizioni e limiti per particolari tipologie di scarico in presenza di determinate condizioni (articolo 124, comma 8), ovvero in relazione alle caratteristiche tecniche dello scarico, alla sua localizzazione e alle condizioni locali dell'ambiente interessato (articolo 124, comma 10); alla necessità del versamento della somma di cui all’articolo 124, comma 11, nonché alle verifiche che caratterizzano lo specifico procedimento amministrativo, sicché non può ritenersi sostituibile da altri atti o provvedimenti rilasciati per finalità diverse ed all’esito di procedure stabilite da altre disposizioni normative.
A maggior ragione, non assumono alcuna validità taciti assensi o illegittime prassi eventualmente applicate dalle amministrazioni competenti. 
Scopo dell’autorizzazione è, infatti, quello di consentire una preventiva verifica della rispondenza di un’attività, potenzialmente pericolosa per l’ambiente, a quanto stabilito dalla legge.
Recentemente, il Consiglio di Stato, Sezione V, 16 dicembre 2022, n. 11033, scrutinando un caso attinente ai profili autorizzatori di uno scarico idrico, ha ulteriormente precisato:
«L’autorizzazione agli scarichi idrici deve formare oggetto di provvedimento necessariamente espresso, non altrimenti surrogabile mediante modelli di semplificazione amministrativa quali l’acquisizione tacita dell’assenso».
Ciò si ricava, peraltro, dalla giurisprudenza costituzionale, secondo cui la citata disposizione di cui all’articolo 124 esprime un livello minimo inderogabile di tutela in materia ambientale (Corte Cost., 18 luglio 2014, n. 209) con il precipuo scopo “di verificare periodicamente la presenza delle condizioni individuate come necessarie per la concessione dell'autorizzazione allo scarico idrico richiesto, al fine di assicurare forme di protezione ambientali adeguate” (Corte Cost., 31 maggio 2012, n. 133. Si veda sul medesimo punto anche Corte Cost., 1° luglio 2010, n. 234).


Attività di lavaggio ecologico di autoveicoli: è richiesta l’autorizzazione allo scarico?
I sistemi di lavaggio a secco degli autoveicoli rappresentano una innovativa pratica di detersione e lucidatura.
Relativamente a tale innovativo sistema di lavaggio, furono richiesti, da parte di un Comune, chiarimenti al Ministero dello Sviluppo Economico - Direzione generale per il mercato, la concorrenza, i consumatori, la vigilanza e la normativa tecnica - Divisione IV Promozione della concorrenza e semplificazioni per le imprese - in ordine ad eventuali adempimenti amministrativi, per svolgere attività di pulizia-lavaggio ecologico di autovetture.
L’ente territoriale riferiva che l’amministratore della società in questione aveva comunicato che l’attività consisteva in pulizia di auto, totalmente a mano, con prodotti ecologici naturali e con uso di pezze in microfibra. Pertanto, non era necessario l’utilizzo di macchinari, di impianti, nonché di locali preposti, in quanto non era previsto uso di acqua e di saponi e non venivano prodotti scarichi di nessun tipo, né di acqua, né di fumo o gas.
Al riguardo, il Ministero dello Sviluppo Economico - Risoluzione n. 225407 del 23 dicembre 2014 – rispondendo al quesito, ha stabilito quanto segue:
«Fa presente, in via preliminare, che nell’ambito della normativa di propria competenza non risulta esserci alcun specifico riferimento all’attività in discorso.
Si ritiene, comunque, che al pari di altre attività artigianali, di produzione o di servizio, si tratti di attività che non è regolata in quanto tale (che non prevede, cioè, limiti numerici o programmatori o requisiti morali e professionali del titolare), ma relativamente alla quale sono regolati alcuni effetti o modalità operative (autorizzazioni agli scarichi ed altre eventuali autorizzazioni ambientali per uso di motori, etc.).
Ne consegue che se per le caratteristiche con cui l’attività è svolta non si verificano le condizioni che richiedono tali autorizzazioni, l’attività deve ritenersi totalmente libera, salvi gli adempimenti prescritti da altre norme (come, per esempio, la comunicazione dell’avvio dell’attività al Registro delle Imprese) ed il rispetto di tutte le norme vigenti».  


Le acque reflue industriali “assimilabili” alle domestiche
Il regolamento emanato dal soggetto gestore del servizio idrico integrato, approvato dall’ente di governo dell’ambito competente, ai sensi dell’articolo 107, d.lgs. n. 152/2006, può prevedere che le acque reflue provenienti da insediamenti in cui si svolgono attività di produzione di beni e prestazione di servizi, i cui scarichi terminali provengano esclusivamente da servizi igienici, possano essere classificate quali acque reflue industriali “assimilabili” alle domestiche.
Tali tipologie di acque possono ritenersi “assimilate” alle acque reflue domestiche, esclusivamente all’esito positivo dell’istruttoria condotta dall’ente di governo d’ambito, con accoglimento finale dell’istanza di assimilazione presentata dal titolare dell’attività da cui origina lo scarico, con il rilascio dal “provvedimento di assimilazione” al refluo domestico. 
In caso di rigetto dell’istanza di assimilazione, i reflui sono da considerarsi “reflui industriali” e pertanto, soggetti alle norme di cui al d.lgs. n. 152/2006 e al d.P.R. n. 59/2013, con obbligo in capo al titolare o legale rappresentante dell’attività di richiedere e/o acquisire il titolo autorizzativo per lo scarico in pubblica fognatura secondo le modalità e le procedure stabilite.
I reflui assimilati al domestico, ai sensi del regolamento dell’ente d’ambito, con l’emissione del “provvedimento di assimilazione” possono essere scaricati in pubblica fognatura senza obbligo di autorizzazione allo scarico, in quanto sempre ammessi ai sensi dell’articolo 124 comma 4 del d.lgs. n. 152/2006 nell’osservanza dei Regolamenti fissati dal Gestore del servizio idrico integrato ed approvati dall’Ente d’ambito.
Il titolare degli scarichi in pubblica fognatura delle acque reflue, in possesso del “provvedimento di assimilazione”, è soggetto, comunque, all’obbligo di garantire l’accessibilità del punto di scarico, al fine di consentire i controlli.
In assenza del provvedimento di assimilazione, rilasciato dall’Ente d’ambito, si configura il reato di cui all’articolo 137, comma 1, d.lgs. n. 152/2006.


Differenza tra scarico idrico non autorizzato e illecita gestione di rifiuti
Le modalità in concreto seguite per lo sversamento di liquami segnano l’imprescindibile criterio per stabilire se vi sia stato scarico di reflui piuttosto che un abbandono o ancor più in generale uno smaltimento non autorizzato di rifiuti
In tema di inquinamento idrico, ai fini della integrazione del reato di cui agli artt. 124, comma primo, e 137, comma primo, del d.lgs. n. 152/2006, costituisce scarico non autorizzato di acque reflue industriali qualsiasi immissione delle stesse, che deve tuttavia avvenire attraverso un sistema stabile di collettamento che colleghi senza soluzione di continuità il ciclo di produzione del refluo con il corpo ricettore acque superficiali. 
Occorre precisare che la stabilità del collettamento non va in ogni caso confusa con la presenza, continuativa nel tempo, dello stesso sistema di riversamento, in contrasto con la occasionalità del medesimo, bensì va identificata nella presenza di una struttura che assicuri il progressivo riversamento di reflui da un punto all’altro, sicché, in altri termini, la disciplina delle acque sarà applicabile in tutti quei casi nei quali si è in presenza di uno scarico, anche se soltanto periodico, discontinuo o occasionale, di acque reflue, in uno dei corpi recettori specificati dalla legge ed effettuato tramite condotta, tubazioni, o altro sistema stabile nei termini suddetti (Corte di Cassazione, Sez. III, 10 febbraio 2023, n. 5738). 
In tutti gli altri casi, nei quali manchi il nesso funzionale e diretto delle acque reflue con il corpo recettore si applicherà, invece, la disciplina sui rifiuti.


Liquami provenienti da autolavaggi: reflui industriali o rifiuti liquidi?
Liquami provenienti da autolavaggio: reflui industriali
È stato ritenuto configurabile il reato di cui all'articolo 137 del d.lgs. n. 152/2006, dovendosi richiamare il principio enunciato dalla Corte di Cassazione (Sezione III, n. 51889 del 21 luglio 2016; Sezione III, n. 3450 del 28 gennaio 2020), secondo cui, in tema di tutela delle acque dall'inquinamento, lo scarico dei reflui provenienti da impianti di autolavaggio, eseguito in assenza di autorizzazione, integra il reato di cui all'articolo 137, comma primo, del d.lgs. n. 152/2006, non potendo tali acque essere assimiliate a quelle domestiche.
Gli impianti di autolavaggio hanno natura di insediamenti produttivi e non di insediamenti civili, in considerazione della qualità inquinante dei reflui, diversa e più grave rispetto a quella dei normali scarichi da abitazioni, e per la presenza di residui quali oli minerali e sostanze chimiche contenute nei detersivi e nelle vernici eventualmente staccatesi dalle vetture usurate.
Ne consegue che lo scarico di tali acque, di natura industriale, operato senza autorizzazione, è certamente idoneo a integrare il reato contestato, che ha natura di reato di pericolo, non assumendo peraltro, rilievo dirimente, la circostanza che i prelievi su alcuni degli scarichi siano risultati nella norma.
Liquami provenienti da autolavaggio: rifiuti liquidi
L’articolo 74, comma 1, lett. ff) del d.lgs. n. 152/2006, definisce scarico: «qualsiasi immissione effettuata esclusivamente tramite un sistema stabile di collettamento che collega senza soluzione di continuità il ciclo di produzione del refluo con il corpo ricettore in acque superficiali, sul suolo, nel sottosuolo e in rete fognaria, indipendentemente dalla loro natura inquinante, anche sottoposte a preventivo trattamento di depurazione. Sono esclusi i rilasci di acque previsti all'articolo 114».
Consegue che in assenza di immissione diretta nel suolo, nel sottosuolo o nella rete fognaria mediante una condotta o un sistema stabile di collettamento, i liquami sono da considerarsi rifiuti allo stato liquido, soggetti alla distinta disciplina di cui alla parte quarta del d.lgs. 152/2006.
Tanto premesso, la giurisprudenza di legittimità ha recentemente chiarito che, «se in un impianto di autolavaggio è realizzata “una fossa di cemento”, nella quale vengono regolarmente fatti convogliare i liquami, non può più configurarsi il reato di cui all’articolo 137, comma 1, del d.lgs. n. 152/2006», venendo meno gli estremi della definizione di scarico, di cui all’articolo 74, comma 1, lett. ff) del d.lgs. n. 152/2006 (Corte di Cassazione, Sezione III, 18 marzo 2022, n. 9242).


La disciplina sanzionatoria nel caso di omessa tenuta dell’autorizzazione unica ambientale
Il d.P.R. 13 marzo 2013 n. 59, “Regolamento recante la disciplina dell'autorizzazione unica ambientale e la semplificazione di adempimenti amministrativi in materia ambientale gravanti sulle piccole e medie imprese e sugli impianti non soggetti ad autorizzazione integrata ambientale”, non prevede disposizioni sanzionatorie.
Talune ingiustificate perplessità sono sorte per l’assenza - sia nel Decreto-Legge n. 5/2012, sia nel d.P.R. n. 59/2013 - di apposite sanzioni penali e amministrative relative alle ipotesi in cui l’attività dell’impianto venga svolta senza rispettare le disposizioni del Regolamento o in loro aperta violazione.
Fino ad eventuale diversa disposizione nazionale, devono continuare a valere le normative settoriali, ritenendosi pertanto pacificamente applicabili le sanzioni previste dalle norme che a vario titolo disciplinano i titoli abilitativi sostituiti dall'A.U.A.
Dirimente ai fini sanzionatori, amministrativi o penali, per la omessa Autorizzazione Unica Ambientale (A.U.A.), nel caso di scarichi idrici, è la natura giuridica dell’acqua reflua prodotta.
Se quest’ultima assume la connotazione di acqua reflua industriale, ai sensi dell’articolo 74, comma 1, lett. h) del d.lgs. n. 152/2006, la condotta violata assume sempre un rilievo penale, ai sensi dell’articolo 137, comma 1, del d.lgs. n. 152/2006.
Se trattasi, invece, di acqua reflua domestica, ai sensi dell’articolo 74, comma 1, lett. g), del d.lgs. n. 152/2006, ovvero di acqua reflua urbana, ai sensi dell’articolo 74, comma 1, lett. i) del d.lgs. n. 152/2006, la condotta violata assume un rilievo tutto amministrativo, ai sensi dell’articolo 133, comma 2, del d.lgs. n. 152/2006.
Nel caso di specie, dato che i reflui provenienti dagli autolavaggi assumono inevitabilmente lo status giuridico di acque reflue industriali, in mancanza dell’Autorizzazione Unica Ambientale sarà configurato il reato di cui all’articolo 137, comma 1, del d.lgs. n. 152/2006, per cui:
«Fuori dai casi sanzionati ai sensi dell'articolo 29-quattuordecies, comma 1, chiunque apra o comunque effettui nuovi scarichi di acque reflue industriali, senza autorizzazione, oppure continui ad effettuare o mantenere detti scarichi dopo che l'autorizzazione sia stata sospesa o revocata, è punito con l'arresto da due mesi a due anni o con l'ammenda da 1.500 euro a 10.000 euro».


Il deposito di liquami in una vasca o in una fossa di cemento quale deposito temporaneo di rifiuti. Quale reato si configura in caso di inosservanza delle condizioni stabilite nella nuova disciplina introdotta dal decreto cd. “Economia circolare”?
Si è detto sopra, in linea con la Corte di Cassazione, Sezione III, 18 marzo 2022, n. 9242, che se in un impianto di autolavaggio è realizzata una fossa di cemento, nella quale vengono regolarmente fatti convogliare i liquami, non può più configurarsi il reato di cui all’articolo 137, comma 1, del d.lgs. n. 152/2006», venendo meno gli estremi della definizione di scarico, di cui all’articolo 74, comma 1, lett. ff) del d.lgs. n. 152/2006.
In tal caso, infatti, si configura un deposito temporaneo di rifiuti.
L’articolo 183, comma 1, lett. bb) del d.lgs. 3 aprile 2006 n. 152 (modificato dall’articolo 1, comma 9, d.lgs. n. 116/2020, cd. “Economia circolare”) definisce il deposito temporaneo prima della raccolta: «il raggruppamento dei rifiuti ai fini del trasporto degli stessi in un impianto di recupero e/o smaltimento, effettuato, prima della raccolta ai sensi dell'articolo 185-bis».
La disciplina dettagliata del deposito temporaneo di rifiuti è tutta contenuta nell’articolo, introdotto dal d.lgs. n. 116/2020, costituito dall’articolo 185-bis, che stabilisce:


«1) Il raggruppamento dei rifiuti ai fini del trasporto degli stessi in un impianto di recupero o smaltimento è effettuato come deposito temporaneo, prima della raccolta, nel rispetto delle seguenti condizioni:

  • nel luogo in cui i rifiuti sono prodotti, da intendersi quale l'intera area in cui si svolge l'attività che ha determinato la produzione dei rifiuti o, per gli imprenditori agricoli di cui all'articolo 2135 del c.c., presso il sito che sia nella disponibilità giuridica della cooperativa agricola, ivi compresi i consorzi agrari, di cui gli stessi sono soci;
  • esclusivamente per i rifiuti soggetti a responsabilità estesa del produttore, anche di tipo volontario, il deposito preliminare alla raccolta può essere effettuato dai distributori presso i locali del proprio punto vendita;
  • per i rifiuti da costruzione e demolizione, nonché per le filiere di rifiuti per le quali vi sia una specifica disposizione di legge, il deposito preliminare alla raccolta può essere effettuato presso le aree di pertinenza dei punti di vendita dei relativi prodotti.

2) Il deposito temporaneo prima della raccolta è effettuato alle seguenti condizioni:

  • i rifiuti contenenti gli inquinanti organici persistenti di cui al regolamento (CE) 850/2004, e successive modificazioni, sono depositati nel rispetto delle norme tecniche che regolano lo stoccaggio e l'imballaggio dei rifiuti contenenti sostanze pericolose gestiti conformemente al suddetto regolamento;
  • i rifiuti sono raccolti ed avviati alle operazioni di recupero o di smaltimento secondo una delle seguenti modalità alternative, a scelta del produttore dei rifiuti: con cadenza almeno trimestrale, indipendentemente dalle quantità in deposito; quando il quantitativo di rifiuti in deposito raggiunga complessivamente i 30 metri cubi di cui al massimo 10 metri cubi di rifiuti pericolosi. In ogni caso, allorché il quantitativo di rifiuti non superi il predetto limite all'anno, il deposito temporaneo non può avere durata superiore ad un anno;
  • i rifiuti sono raggruppati per categorie omogenee, nel rispetto delle relative norme tecniche, nonché, per i rifiuti pericolosi, nel rispetto delle norme che disciplinano il deposito delle sostanze pericolose in essi contenute;
  • nel rispetto delle norme che disciplinano l'imballaggio e l'etichettatura delle sostanze pericolose.

3) Il deposito temporaneo prima della raccolta è effettuato alle condizioni di cui ai commi 1 e 2 e non necessita di autorizzazione da parte dell'autorità competente».


Nella nuova formulazione della norma che reca la disciplina del deposito temporaneo, i rifiuti possono essere raccolti ed avviati alle operazioni di recupero o di smaltimento con cadenza almeno trimestrale, indipendentemente dalle quantità in deposito.
In alternativa alla predetta modalità, i rifiuti possono essere raccolti ed avviati alle operazioni di recupero o di smaltimento, quando il quantitativo di rifiuti in deposito raggiunga complessivamente i trenta metri cubi di cui al massimo dieci metri cubi di rifiuti pericolosi. 
In ogni caso, allorché il quantitativo di rifiuti non superi il predetto limite all'anno, il deposito temporaneo non può avere durata superiore ad un anno.
Tali limiti consentono al produttore di scegliere, in alternativa, di contenere il quantitativo dei rifiuti entro un certo volume, superato il quale deve recuperarli o smaltirli, oppure di effettuare tali operazioni, indipendentemente dal quantitativo dei rifiuti, secondo una precisa cadenza temporale, che è quella di tre mesi.
L’osservanza delle condizioni, relative ai limiti quantitativi e temporali del deposito, sollevano il produttore dei rifiuti dagli obblighi previsti dal regime autorizzatorio delle attività di gestione, tranne quelli di tenuta dei registri di carico e scarico e per il divieto di miscelazione, mentre in difetto di tali condizioni – la sussistenza delle quali deve essere dimostrata dall’interessato, trattandosi di norma di favore – l’attività posta in essere, come si dirà meglio successivamente, dovrà configurarsi come gestione non autorizzata di rifiuti ovvero come deposito incontrollato di rifiuti.  
Il rispetto di tutte le condizioni previste dall’articolo 185-bis del d.lgs. n. 152/2006, esonera il produttore dal richiedere l'autorizzazione e quindi dall'osservanza degli obblighi previsti dal regime autorizzatorio, ad eccezione del divieto di miscelazione e dell'obbligo della tenuta del registro di carico e scarico, che devono comunque essere assolti.
Quale reato si configura nel caso di inosservanza di una sola delle condizioni, ed in particolare, nel caso che il deposito ecceda la durata di un anno? 
Nel Titolo VI della Parte Quarta, Capo I, del d.lgs. n. 152/2006, dedicato tutto al sistema sanzionatorio, manca una disposizione che rechi, in modo automatico e diretto, una sanzione per l’ipotesi di deposito temporaneo irregolare
La risposta al quesito è fornita, anche a più riprese, dalla giurisprudenza.  
Secondo la Corte di Cassazione, Sezione III, 5 luglio 2022 (udienza 17 maggio 2022), n. 25630: «il deposito temporaneo dei rifiuti, nella versione previgente al decreto 116/2020, era definito dall’articolo 183, comma 1, lett. bb), d.lgs. n. 152/2006, quale raggruppamento dei rifiuti e il deposito preliminare alla raccolta ai fini del trasporto di detti rifiuti in un impianto di trattamento, effettuati prima della raccolta, nel luogo in cui gli stessi sono prodotti (…); costituiva requisito imprescindibile il fatto che i rifiuti dovessero essere raccolti ed avviati alle operazioni di recupero o di smaltimento secondo una delle seguenti modalità alternative, a scelta del produttore dei rifiuti: con cadenza almeno trimestrale, indipendentemente dalle quantità in deposito; quando il quantitativo di rifiuti in deposito raggiungeva complessivamente i 30 metri cubi, di cui almeno 10 metri cubi di rifiuti pericolosi. In ogni caso, allorché il quantitativo di rifiuti non superava il predetto limite all’anno, il deposito temporaneo non poteva mai avere durata superiore ad un anno.
Tale requisito è rimasto invariato anche nella vigente definizione di deposito temporaneo data dall’articolo 185-bis d.lgs. n. 152/2006, aggiunto dall’articolo 1, comma 14, d.lgs. n. 116/2020».

Nel caso di specie - essendo stato accertato che il deposito di rifiuti rinvenuto nell’autocarrozzeria eccedeva effettivamente la durata di un anno, prescindendosi peraltro dal dato quantitativo - i giudici ermellini hanno ritenuto configurato il reato di cui al d.lgs. n. 152/2006, articolo 256, comma 1, lettera b), per attività non autorizzata di recupero/smaltimento di rifiuti speciali pericolosi, poiché l'indagato aveva effettuato un deposito di rifiuti, che non poteva essere qualificato come deposito temporaneo, secondo la disciplina dettata dall’articolo 185-bis del d.lgs. n. 152/2006.
Il reato in questione è sanzionato con la pena dell'arresto da sei mesi a due anni e con l’ammenda da 2.600 euro a 26.000 euro.

 

Articolo di Gaetano Alborino

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