Risposta di Andrea Dallatomasina
QuesitiSono presentati per rettifica in anagrafe atti di matrimonio indiani che risultano essere copia cartacea dell'originale digitale. Sulla copia cartacea è presente a volte un timbro di "copia conforme", la firma digitale dell’USC, il QR code, i timbri dell'autorità indiana e sul retro l’apostille cartacea. Quando si apre il QR code però non c'è possibilità di verificare l'atto originale digitale, manca l’apostille elettronica, la verifica è rimandata all'autorità ricevente. È corretto non accettarli?
Di seguito un esempio di quanto riportato nel quesito:
- esempio di certificato che riporta la dicitura "issued duplicate certificate" e Qr code che non si apre,
- esempio di certificato con Qr code che si apre e rinvia al certificato uguale a quello cartaceo ma non collegato ad una e-apostille.
Entrambi i certificati sono firmati solo digitalmente.
La funzione pubblica della banca dati anagrafica è inquadrata dalla Legge 24 dicembre 1954, n. 1228 e dal d.P.R. 30 maggio 1989, n. 223 e la sua autorevolezza quale base di dati di interesse nazionale è confermata dall'articolo 62 del Decreto Legislativo 7 marzo 2005, n. 82. L'intero assetto del sistema anagrafico si basa sul principio della presunzione di esattezza dei dati, che, appunto, è elemento costituto dell'attività certificativa dell'anagrafe. Le recenti innovazioni apportate dalla crescita dei servizi digitali grazie all’intervento del Dipartimento per la trasformazione digitale hanno rafforzato l'esigenza di una banca dati il più possibile esatta, viste le responsabilità dell'ufficiale d'anagrafe nella registrazione dei dati.
Il concetto fondamentale è il seguente: tutto ciò che è registrato in anagrafe deve essere documentato. Tale principio trova applicazione non solo nei dati fondamentali – quelli desunti dal passaporto e riportati nel permesso di soggiorno per i cittadini stranieri – che compongono la base dell’identità, ma anche in quelli relativi a status e rapporti familiari.
A norma dell'articolo. 14 del d.P.R. 30 maggio 1989, n. 223, “chi trasferisce la residenza dall'estero deve comprovare all'atto della dichiarazione di cui all'art. 13, comma 1, lett. a), la propria identità mediante l'esibizione del passaporto o di altro documento equipollente. Se il trasferimento concerne anche la famiglia, deve esibire inoltre atti autentici che ne dimostrino la composizione, rilasciati dalle competenti autorità dello Stato di provenienza”.
Questa è la norma di carattere regolamentare che si basa sul fatto che è la documentazione rilasciata dallo Stato estero competente è lo strumento idoneo a causare qualsiasi tipo di variazione di dati personali, a cominciare da quelli costitutivi dell'identità (cognome, nome, data e luogo di nascita), fino naturalmente alla cittadinanza.
Il tutto a fronte del principio di diritto internazionale contenuto nella Legge 31 maggio 1995, n. 218, che consente di collegare il soggetto a un Paese che potrà quindi documentare in modo "forte" i propri dati con i dati indicati sul passaporto o le certificazioni/attestazioni consolari.
La documentazione comprovante gli status personali e i legami dovrà quindi essere rilasciata dalle autorità dello Stato di cui l’interessato è cittadino (o comunque della competente autorità estera, qualora l'evento sia accaduto in altro Paese).
La generica formulazione lascia inevitabilmente spazio a un margine di flessibilità che l'operatore deve avere: nel concetto di atti possono infatti rientrare certificati, attestati ma anche libretti di famiglia, stati di famiglia e persino passaporti.
Quando viene presentato un documento proveniente dall’estero questo deve rispettare dei requisiti, in mancanza dei quali l'atto non può essere ricevuto e il dato non potrà, quindi, essere documentato.
Per quanto attiene all’esame documentale, va richiamata l’applicazione dell’articolo 33 del d.P.R. 28 dicembre 2000, n. 445, per cui “le firme sugli atti e documenti formati all'estero da autorità estere e da valere nello Stato sono legalizzate dalle rappresentanze diplomatiche o consolari italiane all'estero”, mentre “le firme sugli atti e documenti formati nello Stato e da valere nello Stato, rilasciati da una rappresentanza diplomatica o consolare estera residente nello Stato, sono legalizzate a cura delle prefetture”. Inoltre, è fondamentale che la documentazione – che potrà essere un certificato di stato civile ma anche un’attestazione di natura anagrafica o rilasciata dalle autorità consolari – sia tradotta in lingua italiana, con traduzione legale.
Il documento straniero originale dovrà, come detto, essere in regola con le norme sulla legalizzazione, a meno che non vi siano convenzioni che esentano da tale formalità (es. Convenzione dell'Aja che prevede l'apostille o altre convenzioni che esentano dalla legalizzazione o altra formalità, tra cui il Regolamento UE n. 1191/2016 per tutti gli atti emanati da un Paese europeo).
Ciò si evince da quanto stabilito dall'articolo 33 del d.P.R. 28 dicembre 2000, n. 445, che è norma di carattere generale che si applica a tutti i documenti che provengono dall'estero e che devono valere nello Stato, quindi non solo a quelli che devono essere trascritti nei registri di stato civile, ma anche a quelli da presentare all'ufficio anagrafe.
In mancanza di tale formalità, i documenti formati all'estero non hanno alcun valore giuridico. Riguardo alla traduzione, è evidente che questa è necessaria per permettere all'ufficiale di anagrafe di comprendere il contenuto del documento. Al di fuori di specifiche convenzioni che esentano la legalizzazione (i modelli plurilingue, tra cui quelli di cui al citato Regolamento UE n. 1191/2016), ricordiamo che: la traduzione in Italia può essere effettuata da un traduttore ufficiale o interprete che ne attesti, con le formalità previste, la conformità al testo straniero (che non può essere mai l’interessato) ed asseverata con giuramento dinanzi all’ufficiale di stato civile (esclusivamente in caso di atto da trascrivere) oppure dinanzi a un cancelliere o a un notaio, nei termini di legge di cui al Regio Decreto 9 ottobre 1922, n. 1366 e al d.P.R. 28 dicembre 2000, n. 445; per la traduzione all'estero, se nello Stato straniero esiste la figura del traduttore ufficiale, la conformità può essere attestata dal traduttore stesso, la cui firma viene poi legalizzata dall’ufficio consolare (articolo 33, d.P.R. 28 dicembre 2000, n. 445) autenticandone la firma; in caso di assenza di tale figura, occorrerà la certificazione di conformità dell’autorità diplomatica italiana nello Stato estero.
Partendo da questi principi fondamentali, analizziamo il vs. caso pratico.
I documenti esibiti dal cittadino indiano non sono altro che la stampa analogica di un documento nativo digitale priva dell’attestazione di conformità all’originale da parte del pubblico ufficiale che detiene o che ha rilasciato l’originale.
Non sono sufficienti a rimuovere il problema ed essere validi per il diritto italiano, a mio avviso, l’apposizione dell’apostille da parte dell’autorità indiane sul documento “originale” e la successiva traduzione asseverata presso la cancelleria del Tribunale.
Oltretutto non esiste un accordo bilaterale tra l'Italia e l'India oppure apposite istruzioni operative del Ministero dell’Interno (come nel caso degli atti argentini) in base al quale è possibile da parte dell’ufficiale d’anagrafe verificare, con una procedura concordata, la corrispondenza tra il documento presentato ed il documento digitale originale.
Per risolvere il problema l’interessato potrebbe rivolgersi alla propria autorità diplomatica o consolare indiana in Italia e richiedere apposita attestazione consolare relativa matrimonio.
La firma del Console dovrà essere legalizzata dalla Prefettura in quanto l’India non aderisce alla Convenzione di Londra del 7 luglio 1968.
2 Gennaio 2024 Andrea Dallatomasina
Per i clienti Halley: ricorrente QD n. 3106, sintomo n. 3141
presentata dalla dott.ssa Grazia Benini
Risposta della Dott.ssa Grazia Benini
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