L’attuazione operativa delle politiche sulla sicurezza integrata

Servizi Comunali Pubblica sicurezza
di Massavelli Marco
06 Febbraio 2018

L’attuazione operativa delle politiche sulla sicurezza integrata

Marco Massavelli

 

Il decreto legge 20 febbraio 2017, n. 14, convertito, con modificazioni, dalla legge 18 aprile 2017, n. 48, recante “Disposizioni urgenti in materia di sicurezza delle città”, introduce nuove misure volte a potenziare l’intervento degli enti territoriali e delle forze di polizia nella lotta al degrado delle aree urbane, nella prospettiva di un efficace coordinamento di azioni integrate tra i soggetti coinvolti a vario titolo. A tale scopo, il decreto individua quali piani d’intervento la sicurezza integrata e la sicurezza urbana.

In particolare, la sicurezza integrata è intesa quale insieme d’interventi dello Stato, delle regioni, delle province autonome di Trento e Bolzano, degli enti locali e di altri soggetti istituzionali, al fine di concorrere, ciascuno nell’ambito delle proprie competenze e responsabilità, alla promozione e all’attuazione di un sistema unitario e integrato di sicurezza per il benessere delle comunità territoriali (articolo 1, comma 2, decreto legge n. 14/2017).

Nell’ambito della programmazione e determinazione delle competenze, il decreto prevede l’adozione di linee generali adottate, su proposta del Ministro dell’interno, con un accordo concluso in sede di Conferenza unificata, quali strumenti per attuare le politiche di sicurezza integrata, che devono tenere conto della necessità di migliorare la qualità della vita e del territorio e di favorire l’inclusione sociale e la riqualificazione socio-culturale delle aree interessate.

Tali linee sono finalizzate, innanzitutto, a coordinare, per lo svolgimento di attività d’interesse comune, l’esercizio delle competenze dei soggetti istituzionali coinvolti, anche con riferimento alla collaborazione, nei seguenti ambiti d’intervento, tra le forze di polizia e la polizia locale:

  • scambio informativo tra polizia locale e forze di polizia presenti sul territorio;
  • interconnessione, a livello territoriale, tra le sale operative della polizia locale e quelle delle forze di polizia, nonché la regolamentazione dell’utilizzo in comune di sistemi di sicurezza tecnologica per il controllo delle aree e attività soggette a rischio;
  • aggiornamento professionale integrato per gli operatori.

In esecuzione delle linee generali, lo Stato, le Regioni e le Province autonome di Trento e Bolzano possono concludere accordi per la promozione della sicurezza integrata, anche volti a disciplinare gli interventi a sostegno della formazione e dell’aggiornamento professionale del personale della polizia locale. Le Regioni e le Province autonome, anche sulla base degli accordi sanciti in sede di Conferenza unificata, possono sostenere iniziative e progetti per attuare interventi di promozione della sicurezza integrata nel territorio di riferimento, inclusa l’adozione di misure di sostegno finanziario a favore dei comuni maggiormente interessati da fenomeni di criminalità diffusa.

 

Nella seduta della Conferenza Unificata del 24 gennaio 2018 è stato adottato l’accordo sulle Linee Generali per la promozione della sicurezza integrata.

Le Linee generali per la promozione della sicurezza integrata sono rivolte, prioritariamente, a coordinare, per lo svolgimento di attività di interesse comune, l’esercizio delle competenze dei soggetti istituzionali coinvolti, anche con riferimento alla collaborazione tra le Forze di polizia e la Polizia locale nei seguenti settori d’intervento:


  • scambio informativo tra Polizia locale e Forze di Polizia presenti sul territorio per gli aspetti di interesse comune, ferme restando le rispettive attribuzioni istituzionali;
  • interconnessione a livello territoriale delle sale operative della Polizia locale con le sale operative delle Forze di polizia;
  • regolamentazione dell’utilizzo in comune dei sistemi di sicurezza tecnologica finalizzati al controllo delle aree e delle attività soggette a rischio;
  • aggiornamento professionale integrato per operatori della Polizia locale e delle Forze di polizia.

Le principali novità operative per gli enti locali sono le seguenti:

  • Coinvolgimento dei Comuni negli accordi per la promozione della sicurezza integrata e nei progetti e iniziative ivi previsti. Lo Stato e le Regioni possono concludere specifici accordi per la promozione della sicurezza integrata in attuazione delle Linee generali. Rappresentanti dei Comuni capoluogo e degli altri Enti locali interessati o coinvolti nelle specifiche progettualità parteciperanno, di volta in volta, ai tavoli tecnici, attivati dagli accordi, che verificheranno lo stato di attuazione e di avanzamento dei progetti.
    – Interscambio informativo dei dati. I Prefetti forniranno ai Sindaci dei Comuni capoluogo e delle città metropolitane i dati in forma statistica sull’andamento della delittuosità, con cadenze periodiche.
  • Accesso al Ced Interforze per le Polizie Locali. È prevista una massimizzazione delle opportunità di accesso al CED Interforze per consentire alla Polizia Locale di sfruttare le possibilità di consultazione e inserimento dei dati previste dall’attuale ordinamento. Le Regioni potranno prevedere progetti e interventi per sostenere, anche finanziariamente, l’attivazione di collegamenti al CED da parte delle Polizia locali dei Comuni più interessati ai fenomeni di criminalità diffusa o dei Comuni con più limitate capacità di spesa.
  • Interconnessione delle sale operative della Polizia Locale e delle Forze di polizia. Gli accordi potranno promuovere l’adozione di misure di sostegno nei confronti dei Comuni per l’implementazione di interventi di adeguamento tecnologico delle centrali esistenti o per la creazione di nuove ed incentivi per il passaggio a sistemi di conduzione in comune delle sale operative delle Polizia municipali.
  • Formazione integrata della Polizia Locale con le Forze di polizia. E’ previsto un aggiornamento congiunto con il personale delle Forze di Polizia che verterà non solo sulle materie più “tradizionali” ma anche su argomenti più attuali in virtù dell’evoluzione del quadro normativo e giurisprudenziale.

Ma come realizzare in concreto questa c.d. sicurezza integrata?

Alcune premesse metodologiche:

  • il diritto alla sicurezza deve essere garantito non solo rispetto alla malavita organizzata ma anche rispetto ai fenomeni di criminalità individuale e diffusa;
  •  la competenza in materia di ordine e sicurezza pubblica e di contrasto alla criminalità appartiene allo Stato, che la esercita attraverso il Prefetto, quale autorità provinciale di pubblica sicurezza, che a sua volta si avvale del Comitato per l’Ordine e la Sicurezza Pubblica;
  • è compito dell’amministrazione comunale rappresentare le istanze di sicurezza dei cittadini che vivono sul proprio territorio e assumere tutte le iniziative di prevenzione sociale per la vivibilità e la qualificazione dei luoghi che possono concorrere ad attenuare e circoscrivere i fenomeni di disagio sociale.

I contenuti della collaborazione tra città e Stato devono riguardare:

  • il perseguimento di una sempre maggiore collaborazione tra le Forze dell’Ordine e il Corpo di Polizia Municipale, attraverso una razionale ridistribuzione sul territorio dei rispettivi organici;
  •  l’elaborazione di un rapporto sullo stato della sicurezza pubblica;
  •  l’analisi congiunta delle fenomenologie emergenti;
  • il progetto del vigile di quartiere;
  • le iniziative per la sicurezza e la vivibilità del territorio.

 

Di particolare importanza è la cooperazione tra Stato, Regioni e Enti locali.

L’articolo 118, comma 3, Cost., dispone che la legge statale disciplina forme di coordinamento fra Stato e Regioni nelle materie di cui alla lettera h) del comma 2, dell’articolo 117, Cost.

Nella sentenza n. 134 del 2004, la Corte Costituzionale non esclude che si possano sviluppare auspicabili forme di collaborazione tra apparati statali, regionali e degli enti locali volti a migliorare le condizioni di sicurezza dei cittadini e del territorio, sulla falsariga di quanto ad esempio prevede il D.P.C.M. 12 settembre 2000, il cui articolo 7, comma 3, in relazione al comma 1, dispone che il Ministro dell'interno promuove le attività occorrenti per incrementare la reciproca collaborazione fra gli organi dello Stato, le regioni in tema di sicurezza delle città e del territorio extraurbano e di tutela dei diritti di sicurezza dei cittadini.

Si evince che anche la Corte Costituzionale accoglie la necessità e l’utilità di forme di collaborazione e cooperazione tra i diversi livelli di governo per garantire la sicurezza delle città, che richiede interventi su molti livelli delle politiche pubbliche e che non si esaurisce con la questione dell’ordine pubblico, sottolineando però che tale processo non può essere avviato in modo unilaterale, ma solo sulla base di norme statali che lo prevedano o come esito di un accordo tra tutti gli enti interessati.

Un’ulteriore precisazione in materia di collaborazione tra Stato e autonomie locali proviene dalla sentenza n.105 del 2006 della Corte Costituzionale, che afferma che “nella prospettiva di una completa ed articolata attuazione del principio di leale collaborazione tra istituzioni regionali e locali ed istituzioni statali non può escludersi ‘che l'ordinamento statale persegua opportune forme di coordinamento tra Stato ed enti territoriali in materia di ordine e sicurezza pubblica’, volte, evidentemente, a migliorare le condizioni di sicurezza dei cittadini e del territorio, auspicabili e suscettibili di trovare il loro fondamento anche in accordi fra gli enti interessati, oltre che nella legislazione statale”.

In sostanza la Corte dichiara costituzionalmente legittime le attività di studio e analisi condotte dalle Regioni sulle condizioni di sicurezza dei propri territori, in quanto tali attività nulla hanno a che fare con i contenuti della sicurezza pubblica riservata allo Stato; la rilevazione, lo studio e la ricerca applicata sulla sicurezza del territorio costituiscono piuttosto il presupposto conoscitivo necessario all’Ente locale per aderire e dar vita a forme di collaborazione negoziata con gli altri enti statali che abbiano per obiettivo il miglioramento delle condizioni di sicurezza dei cittadini.

I Patti per la Sicurezza rappresentano certamente un elemento cardine della cooperazione inter-istituzionale, e allo stesso tempo conferiscono un ruolo centrale agli Enti locali.

Con l’articolo 6 decreto legge 23 maggio 2008, n.92 (cosiddetto “pacchetto sicurezza”) è stata introdotta la modifica dell’articolo 54, Testo Unico degli Enti Locali (TUEL), estendendo i poteri di ordinanza del Sindaco quale ufficiale del Governo, anche all’incolumità pubblica e alla sicurezza urbana.

Il Sindaco, in qualità di ufficiale del Governo, ha nuovi poteri di ordinanza in materia di incolumità pubblica e di sicurezza urbana.

La sicurezza urbana ha a che fare, in ambito locale, con il rispetto delle regole che governano la convivenza tra le persone, con la vivibilità nei centri urbani e con la coesione sociale.

 

Al fine di tutelare la sicurezza urbana, il Sindaco dovrà quindi intervenire per prevenire e contrastare:

a) le situazioni urbane di degrado e isolamento che favoriscono l’insorgere di fenomeni criminosi, quali lo spaccio di stupefacenti, lo sfruttamento della prostituzione, l’accattonaggio con impiego di minori e disabili e i fenomeni di violenza legati anche all’abuso di alcool;

b) le situazioni in cui si verificano comportamenti quali il danneggiamento al patrimonio pubblico e privato o che ne impediscono la fruibilità e determinano lo scadimento della qualità urbana;

c) l’incuria, il degrado e l’occupazione abusiva di immobili tali da favorire le situazioni indicate ai punti a) e b);

d) le situazioni che costituiscono intralcio alla pubblica viabilità o che alterano il decoro urbano, in particolare quelle di abusivismo commerciale e di illecita occupazione di suolo pubblico;

e) i comportamenti che, come la prostituzione su strada o l’accattonaggio molesto, possono offendere la pubblica decenza anche per le modalità con cui si manifestano, ovvero turbano gravemente il libero utilizzo degli spazi pubblici o la fruizione cui sono destinati o che rendono

difficoltoso o pericoloso l’accesso ad essi.

Nel corso degli anni il concetto di sicurezza urbana è stato utilizzato come cornice concettuale di due macro-settori di intervento: gli interventi di controllo della micro-criminalità e le politiche di rigenerazione urbana, tanto sotto il profilo del miglioramento dello spazio quanto di azione sociale.

I primi rimandano all’idea di sicurezza come controllo e riduzione della criminalità che si declina attraverso politiche maggiormente strutturate secondo le forme della prevenzione situazionale e di tolleranza zero o, in qualche caso, come politiche di prevenzione sociale.

I secondi rinviano, invece, a tutto ciò che ha a che fare con gli interventi diretti ad aumentare la vivibilità della città e fanno riferimento alle politiche di prevenzione sociale e comunitaria e anche alle politiche di carattere ambientale.

Le politiche di sicurezza urbana sono state definite come politiche che, andando ben oltre i fenomeni criminali, si interessano a tutta una serie di problematiche concernenti la vivibilità delle città e classificabili come cause di disordine fisico (edifici abbandonati e incustoditi, cattiva manutenzione degli spazi urbani e dell’arredo urbano, scritte sui muri, rifiuti e veicoli abbandonati su strada, scarsa illuminazione, panchine o cabine telefoniche vandalizzate, ecc.), e cause di disordine sociale (comportamenti disturbanti o aggressivi verso residenti e passanti, conflitti tra gruppi connessi in talune situazioni alla presenza di immigrati o nomadi, presenza di persone senza

fissa dimora, accattonaggio, tossicodipendenza, prostituzione di strada, ma anche circolazione stradale pericolosa o dannosa).

È possibile delimitare in concreto le aree su cui possono intervenire le politiche locali di sicurezza urbana?

Il primo nodo da sciogliere riguarda le cause dell’insicurezza urbana. L’insicurezza urbana è infatti il risultato non solo di elementi oggettivi legati all’andamento dei fenomeni di criminalità e devianza, ma anche di elementi percettivi legati a altre fonti di inquietudine.

In particolar modo in questo momento storico è innegabile che l’aumento dell’insicurezza economica e sociale e anche delle condizioni di malessere personale siano fattori che influenzano negativamente il vissuto generale di insicurezza, riverberandosi anche nella sicurezza urbana.

Prima di intervenire, un Ente locale si trova nella condizione di dover distinguere se gli è richiesto di occuparsi di un problema che ha manifestazioni concrete e tangibili (lo spaccio di sostanze stupefacenti, il vandalismo, ecc.) a volte oggetto di allarme sociale anche al di là della criticità oggettiva, o di una percezione di fragilità e perdita di garanzie che non ha alcun precipitato tangibile.

Il primo dato, quindi, da sottolineare è la necessità che l’Ente locale distingua i contorni oggettivi di un fenomeno, gli elementi di allarme sociale e infine le percezioni soggettive di insicurezza.

La corretta separazione di questi tre aspetti è il primo passo per sbrogliare la complessa matassa della sicurezza urbana.

Vi saranno casi dove occorre pensare a soluzioni di intervento rispetto alle condizioni oggettive, materiali dei cittadini o degli spazi che essi vivono. In altri casi, invece, l’intervento richiede il sapersi far carico dei sentimenti collettivi di insicurezza.

Il secondo nodo riguarda il target di riferimento. I cittadini non sono tutti uguali. Classe sociale, età, istruzione, genere, sono fattori che producono domande di sicurezza differenziate.

L’Ente locale deve saper fare sintesi tra le istanze dei suoi cittadini e non correre il rischio di rincorrere una categoria a discapito delle altre, a seconda dei momenti storici, delle mode o delle emergenze.

Il terzo nodo riguarda che cosa l’Ente locale può fare. L’Ente locale non cambia le normative penali, non può introdurre nuovi reati o cancellarne di esistenti. Lo sforzo da fare è quello di individuare ambiti di azione concreti.

Una prima considerazione è quindi che l’Ente locale ha maggiore ambito di azione nella prevenzione di comportamenti che minano la sicurezza dei cittadini che non nella repressione. Infatti, è nell’ambito delle politiche di prevenzione che l’Ente locale può utilizzare appieno gli strumenti di governo di cui dispone.

Si pensi ad esempio al tema della pianificazione urbana e territoriale. Se in chiave repressiva sono molti gli attori che devono intervenire (le Forze dell’Ordine, la magistratura, la protezione civile), in ambito preventivo è l’Ente locale che può agire attraverso gli strumenti di pianificazione urbanistica per evitare l’abusivismo edilizio, e quindi promuovere la legalità, evitare i successivi fenomeni di degrado e inciviltà che spesso si accompagnano non solo all’abusivismo ma anche ai fenomeni di concentrazione di disagio sociale nelle aree periferiche delle città.

Una seconda osservazione riguarda l’obiettivo della promozione della pacifica convivenza dei cittadini e della qualità urbana degli insediamenti.

Per quanto riguarda la qualità urbana, indubbiamente, il contenimento di fenomeni di illegalità e criminalità diffusa si sostanzia nelle attività di contenuto prevalentemente repressivo, quali la lotta al vandalismo, all’abbandono di rifiuti, agli insediamenti abusivi, ai rumori molesti, al degrado fisico degli ambienti urbani.

Il primo aspetto da prendere in considerazione per progettare una buona politica è relativo alla conoscenza del contesto territoriale e dei problemi di sicurezza che lo caratterizzano. Conoscere i fenomeni che creano maggiori preoccupazioni, i fattori che li determinano o le aree del territorio interessate da questi fenomeni è il primo passo per elaborare interventi più mirati e attenti alle necessità reali e di conseguenza più strettamente collegabili a priorità strategiche in grado di soddisfarle.

Una parziale conoscenza del contesto può influire sulla capacità di progettazione ed esecuzione di un ente con il rischio di prevedere in un progetto azioni che non corrispondono esattamente ai bisogni di sicurezza del territorio.

Può capitare che iniziative a favore di un target specifico della popolazione (ad esempio i giovani o la popolazione straniera) pensate “a tavolino” senza un confronto con il contesto specifico, nella fase di attuazione si rivelino esigenze non così prioritarie o rilevanti, con il risultato di compromettere l’impatto e l’efficacia dell’intervento o di rendere necessaria la ri-progettazione delle attività previste.

Lo scambio di conoscenze ed esperienze sulle criticità locali tra soggetti all’interno e all’esterno dell’ente aiuta a focalizzarsi sui problemi reali, concreti ed effettivamente presenti in uno specifico contesto o in una specifica area del territorio, e ad avere una migliore comprensione sia delle problematiche e aspettative rispetto alla loro presa in carico, sia delle risorse e delle potenzialità per affrontarle con successo.

Un altro nodo progettuale cui gli enti non sempre prestano la dovuta attenzione riguarda l’individuazione degli obiettivi che attraverso l’intervento si vogliono raggiungere. Nella maggior parte dei casi nell’individuare gli obiettivi non viene esplicitata una strategia chiara. Questo passaggio è spesso risolto in modo sbrigativo e con affermazioni di carattere generale, sotto forma di dichiarazioni o auspici come ad esempio “aumentare la sicurezza” o “eliminare il problema dello spaccio”. Questi sono obiettivi che tuttavia l’ente difficilmente è in grado di raggiungere nel breve termine o nell’arco di tempo di un progetto perché le variabili che determinano l’andamento di questi fenomeni vanno ben al di là della capacità di azione dell’amministrazione comunale e si misurano sul medio-lungo periodo. È di gran lunga preferibile, invece, per un ente darsi obiettivi concreti e raggiungibili nel tempo senza alimentare false promesse.

Provando a entrare nel concreto, si possono definire sostenibili gli obiettivi che siano specifici e coerenti con le criticità che si intendono affrontare, cioè capaci di rispondere al problema o ai problemi individuati come oggetto dell’intervento affinché la situazione negativa presente possa essere migliorata nel futuro; darsi obiettivi concreti e raggiungibili, senza false promesse calibrati rispetto alla reale rilevanza e gravità del problema nel contesto e al livello territoriale a cui si intende agire.

Per riuscire a trasformare un’idea progettuale in una politica locale, una volta identificati i problemi e fissati gli obiettivi, si deve pensare alla loro “traduzione in pratica”, ovvero agli interventi che si intendono effettuare.

Quando il problema da affrontare è di particolare complessità o interessa trasversalmente l’azione di più settori dell’amministrazione, è necessario agire attraverso un programma articolato di interventi differenti, ma tra loro complementari e integrati.

Le azioni complementari possono configurarsi come interventi che:

  • agiscono su più ambiti tematici affrontando il problema da diversi punti di vista e coniugando approcci differenti. Un esempio di questo tipo, tra gli altri, sono gli interventi che mirano a ridurre il fenomeno della prostituzione su strada attraverso un’azione coordinata e concertata che prevede non soltanto attività di controllo del territorio da parte delle Forze dell’Ordine, ma anche azioni di sostegno alle donne da parte degli operatori sociali e azioni di pulizia dei siti da parte dei servizi ambientale competenti;
  •  si indirizzano ad una pluralità di destinatari che a diverso titolo sono interessati dal problema e il cui coinvolgimento può contribuire a raggiungere gli obiettivi dell’intervento;
  • coinvolgono istituzioni, enti e realtà differenti per finalità, natura giuridica, ambito di attività e competenze. Nel campo degli interventi della sicurezza i possibili “portatori di interesse” che possono essere coinvolti sono molteplici: dalle forze dell’ordine alle istituzioni scolastiche e formative, dalle cooperative sociali e associazioni alle realtà economiche, dai centri di ricerca alle agenzie che svolgono servizi di pubblica utilità per conto dell’Ente locale.

Per costruire una politica di sicurezza locale non si può prescindere dalla capacità dell’ente di fare rete con i soggetti che all’interno e all’esterno dell’amministrazione locale hanno competenza e capacità di intervento sul problema individuato, facendo proprio il concetto di “sicurezza partecipata” e di “co-responsabilità” nella produzione della sicurezza.

La conoscenza del contesto territoriale è un elemento imprescindibile per una corretta interpretazione dei problemi di insicurezza, reale e percepita,  di un territorio.

La raccolta e l’analisi di indicatori stabili, ripetibili e georeferibili è un passaggio essenziale per l’attivazione di politiche efficaci, che affrontino il tema sia dal punto di vista dell’allarme sociale che della sicurezza oggettiva.

Le ricerche sulla sicurezza dicono che essere anziani, soli, privi di scambi sociali significativi, influisce sul senso di vulnerabilità e insicurezza.

Affermano altresì che livelli di istruzione medio-bassi e condizioni di vita precarie (avere ad esempio un lavoro instabile e basso reddito) determinano maggiore preoccupazione per la qualità della vita e del territorio di appartenenza e diffidenza verso i nuovi arrivi (ad esempio gli stranieri), vissuti come minacciosi in un contesto di risorse scarse. Un territorio densamente popolato poi, con una popolazione giovane e di recente migrazione, può essere maggiormente esposto a fragilità sociali e a problematiche di disordine sociale, a conflittualità tra gli abitanti e anche alla criminalità. Questi sono solo alcuni dei casi che bene esemplificano il ruolo determinante che le caratteristiche socio-demografiche possono avere sulla fragilità dei territori e sulla maggiore esposizione dei cittadini a problematiche di insicurezza reale o percepita.

Per questi motivi, le politiche di sicurezza territoriali non possono prescindere da un’attenta analisi anche sulla composizione socio demografica dei territori.

Così come i cambiamenti della popolazione cittadina rappresentano una dimensione che connota il volto della città, anche il contesto economico produttivo è un elemento fondamentale che permette di caratterizzare il tessuto territoriale in termini di sviluppo produttivo e commerciale.

La localizzazione degli insediamenti produttivi e commerciali sul territorio e la loro evoluzione nel tempo rappresentano elementi fondamentali nell’analizzare la sicurezza di una città.

Sicurezza e vivacità imprenditoriale sono due elementi che si influenzano e si relazionano.

Ristoranti, bar, locali di divertimento sono stati in tempi recenti leve per riqualificare aree urbane e per migliorare la vivibilità di alcune zone spesso degradate o comunque considerate insicure.

Gli strumenti di programmazione urbanistica e gli interventi di trasformazione urbana (piani territoriali, progetti di riqualificazione urbana, progetti integrati di intervento, ecc.) rivestono una grande importanza nel creare condizioni che aumentano o diminuiscono la sicurezza di un territorio.

L’attuale società dell’informazione si caratterizza per un rilevante impiego di tecnologie che amplia le possibilità dei cittadini ma allo stesso tempo entra in conflitto con i loro diritti.

La videosorveglianza si inserisce appieno in questa dicotomia, da un lato opportunità di tutela dei cittadini, dall’altro rischio per i diritti dei cittadini.

Analogamente a quanto avviene a livello europeo, anche la disciplina italiana in materia di videosorveglianza si inserisce all’interno della articolata normativa in materia di privacy e protezione dei dati personali. In altri termini, alla videosorveglianza si applicano le disposizioni generali previste in materia di protezione dei dati personali e quelle specifiche sulla materia, emanate dal Garante per i dati personali, al fine di consentire ai soggetti pubblici e privati la protezione dei dati personali delle persone filmate.

I principi essenziali definiti del Garante per la protezione dei dati personali sono i principi di liceità, necessità e proporzionalità.

La liceità indica che la videosorveglianza può essere adottata qualora ciò sia consentito dalla legge. Il Codice della Privacy stabilisce che il ricorso alla videosorveglianza avviene per i soggetti pubblici quando svolgono funzioni istituzionali (artt. 18-22) e per i soggetti privati e gli enti pubblici economici, qualora vi sia consenso dell’interessato (art. 23) o in assenza di questo, in casi specifici stabiliti dalla legge (artt. 24-27): è il caso, ad esempio, dell’adempimento di un obbligo di legge o della presenza di interessi prevalenti che non ledono i diritti dei soggetti sottoposti a videosorveglianza.

La necessità richiede, invece, che gli scopi che ci si prefigge non possano essere conseguiti mediante l’impiego di dati anonimi. Con tale principio cioè si intende sottolineare che i sistemi di videosorveglianza vanno configurati in modo tale da trattare il meno possibile dati personali e solo quando questo si riveli necessario. Ogni uso superfluo o ridondante deve essere evitato. Ad esempio se lo scopo della videosorveglianza è il monitoraggio del traffico al solo fine di studiare modifiche alla circolazione in vista di una maggiore efficienza, non dovrà permettere l’identificazione del veicolo o tantomeno dei suoi occupanti. Qualora, invece, sia utilizzato al fine di

elevare contravvenzioni permetterà il riconoscimento della targa, ma non occorre quello degli occupanti.

Infine, il principio di proporzionalità stabilisce che non si deve mai eccedere nell’uso della videosorveglianza, rispetto ai fini prefissati.

Le modalità di installazione e di trattamento delle immagini devono essere sempre ancorate alle finalità date.

La prima legge sulla privacy (l. n. 675/1996) definisce dato personale “qualunque informazione relativa a persona fisica, persona giuridica, ente od associazione, identificati o identificabili, anche indirettamente, mediante riferimento a qualsiasi altra informazione, ivi compreso un numero di identificazione personale”. Sono quindi comprese in questa definizione anche i suoni e le immagini. La videosorveglianza si inserisce così nel tema della privacy e del trattamento dei dati personali.

La videosorveglianza sta suscitando grande attenzione tra le misure messe in campo dagli Enti locali sul tema della sicurezza. Da circa un decennio è ormai evidente che la videosorveglianza sia lo strumento privilegiato sia dai Comuni piccoli e medi sia dai Comuni capoluogo.

Per quanto riguarda questi ultimi, ad esempio, è interessante evidenziare come dal 2006 ad oggi nei Patti per la sicurezza siglati con lo Stato, la videosorveglianza sia quasi sempre individuata come uno degli ambiti principali di intervento sulla sicurezza del territorio. Negli anni l’attribuzione di nuove competenze specifiche in materia di sicurezza urbana ai Sindaci e ai Comuni ha di fatto favorito l’incremento di questi sistemi, unitamente agli incentivi economici statali e regionali che hanno finanziato queste forme di difesa passiva del territorio.

La videosorveglianza può essere uno strumento efficace solo se utilizzato in modo selettivo, ovvero in determinate condizioni e per specifiche finalità.

Inoltre, l’efficacia della videosorveglianza è condizionata anche dal suo essere uno degli strumenti utilizzati all’interno di una strategia complessiva per la sicurezza urbana. Spesso l’installazione di telecamere a fini di sicurezza non si accompagna a una valutazione preliminare dei problemi di sicurezza cui la telecamera dovrebbe rispondere e dei suoi potenziali effetti (sui tassi di criminalità, sui comportamenti devianti e sulle percezioni dei cittadini) con il risultato che poi gli esiti ottenuti non corrispondono, o sono inferiori, a quelli attesi. Questo accade non perché le telecamere non funzionino, ma perché la decisione di adottare questo strumento si basa su valutazioni poco approfondite e parziali o su scelte basate prevalentemente sul consenso.

È soprattutto a partire dal 2004, con un ricorso sempre maggiore agli impianti di videosorveglianza, che gli organismi istituzionali hanno iniziato a occuparsi della delicata gestione degli strumenti di telecontrollo, soprattutto vista l’urgente necessità di tutelare la privacy e i diritti fondamentali dei cittadini. In questa direzione si è mosso per primo il Garante per la protezione dei dati personali che attraverso due provvedimenti successivi, nel 2004 e nel 2010, ha fornito regole e indicazioni in materia di videosorveglianza, aggiornandole negli anni in funzione dell’evoluzione tecnologica e normativa in materia di sicurezza. Accanto alle specifiche relative alla protezione della privacy, i provvedimenti contengono indicazioni sulla titolarità degli impianti e sul necessario coordinamento tra i diversi organismi preposti alla loro gestione. È questo in particolare l’aspetto su cui ci si vuole soffermare, analizzando l’evoluzione nell’organizzazione e gestione degli impianti che si è venuta consolidando alla luce sia delle indicazioni del Garante per la protezione dei dati personali sia delle direttive adottate dal Ministero dell’Interno (Dipartimento di Pubblica sicurezza) volte a definire alcune linee guida in materia.

Il codice deontologico emanato dal Garante nel 2004 indica che esclusivamente chi ha responsabilità in materia di sicurezza pubblica, prevenzione e accertamento dei reati ha titolarità a visionare le immagini e a procedere ad accertamenti. A tale proposito, le successive Linee guida del

Ministero dell’Interno del 2005 sottolineano la necessità di coordinare l’azione e gli interventi dei diversi soggetti pubblici interessati nel rispetto delle reciproche attribuzioni e competenze, nonché di garantire l’efficacia tecnico-operativa dei sistemi, soprattutto quando siano in qualsiasi modo

collegati alle centrali operative delle forze di polizia. Da ultimo, va evidenziato l’invito a predisporre azioni volte ad armonizzare le esigenze di sicurezza primaria, di cui sono garanti le Forze di polizia statali, con l’evoluzione del “sistema sicurezza” che prevede il ricorso sempre più

frequente a forme di sicurezza partecipata e sussidiaria. In particolare, i Comitati provinciali per l’ordine e la sicurezza pubblica (CPOSP) sono individuati come le sedi idonee per esaminare la scelta delle aree, le effettive esigenze che giustifichino il ricorso alle telecamere e l’attuazione di piani coordinati per il controllo del territorio. Il tentativo è dunque quello di gestire gli impianti anche da un punto di vista logistico e organizzativo, limitando ad esempio il collegamento con le sale e centrali operative solo ai casi di stretta necessità per evitare un sovraccarico di lavoro rispetto alle risorse a disposizione. Nelle Linee guida ministeriali si sottolinea, inoltre, che la gestione del flusso delle immagini, al di fuori di obiettivi strategici per la sicurezza primaria, è in capo agli organi di Polizia Locale e agli istituti di vigilanza, ma quando si rende necessario - ad esempio in casi di flagranza di reato o per l’avvio di attività investigative - è comunque obbligatorio informare le forze di polizia.

A seguito delle nuove attribuzioni di competenza ai Sindaci in materia di sicurezza urbana si è prevista la partecipazione diretta dei Comuni a questioni prima riservate a Polizia di Stato e Carabinieri. Gli Enti locali hanno così iniziato a servirsi di sistemi di videosorveglianza a tutela della sicurezza urbana senza dover ricorrere alla stipula di Protocolli d’intesa tra Sindaci e Prefetti come avveniva in passato, essendo gli impianti tecnici dei Comuni assimilati a quelli in uso da Polizia e Carabinieri  Alla luce di ciò, il nuovo provvedimento del Garante del 2010 ha aggiornato e articolato le disposizioni del 2004 riconoscendo formalmente agli Enti locali poteri di controllo del territorio anche attraverso la videosorveglianza. A questo riconoscimento, però, si accompagna un richiamo deciso alla necessità di un’informativa trasparente sulla presenza di sistemi di videosorveglianza e di cautele particolari qualora vengano utilizzati sistemi integrati di videosorveglianza o in casi particolarmente sensibili di trattamento dei dati (per i quali è prevista una verifica preliminare del Garante). Particolare attenzione agli aspetti legati al coordinamento tra le Forze dell’ordine e gli Enti locali è stata posta dal Ministero dell'Interno con una specifica circolare del 2010 dove ha inteso chiarire che qualora si profilino aspetti di tutela dell’ordine e della sicurezza pubblica, oltre a quelli di sicurezza urbana, sarebbe opportuna una valutazione preventiva del Comitato provinciale per l’ordine e la sicurezza pubblica. L’Anci ha ribadito

tali indicazioni attraverso la pubblicazione di Linee guida esplicative del provvedimento del Garante del 2010.

All’inizio del 2012 una nuova direttiva del Ministero dell’Interno è tornata sul tema dell’utilizzo di strumenti di videosorveglianza da parte degli Enti locali. Questo intervento si è reso necessario - a detta del Ministero - al fine di migliorare le modalità di impiego degli strumenti di videosorveglianza, in alcuni casi utilizzati in modo non funzionale e

diseconomico. La “Piattaforma della videosorveglianza integrata”, offre indicazioni per la valutazione di futuri interventi di videosorveglianza in ambito comunale o l’aggiornamento di installazioni già operative. Nel ribadire la necessità di un’attività valutativa preliminare all’installazione degli impianti di videosorveglianza, la Direttiva individua i Comitati provinciali per l’ordine e la sicurezza quale sede più idonea a svolgere questa funzione, come già indicato nelle precedenti circolari del 2005 e del 2010.

Nella direttiva vengono inoltre fornite alcune linee guida sugli elementi da valutare per la progettazione e l’installazione di nuovi sistemi di videosorveglianza.

Si ritiene utile:

  • tracciare un bilancio delle risorse umane e strumentali (ad esempio altri dispositivi esistenti) disponibili;
  • realizzare una “diagnosi locale” preliminare, ad esempio considerando la dimensione del contesto territoriale, le condizioni di sicurezza del territorio (che devono essere peggiorative e caratterizzate da fenomeni non effimeri), la possibilità di attuare strumenti di intervento alternativi alla videosorveglianza, così da dare maggiore sostanza al principio di necessità;
  •  definire obiettivi e risultati attesi dall’impianto di videosorveglianza;
  • stabilire la tipologia del sistema che può rispondere agli obiettivi preposti;
  •  verificare la corrispondenza del sistema prescelto alle caratteristiche tecniche (indicate nel documento tecnico allegato alla Direttiva) che permettono trasferimento e conservazione ottimale delle immagini.

Le telecamere sono oggi utilizzate nei contesti urbani per diverse finalità: dalla sicurezza urbana alla gestione dei rifiuti, dal controllo stradale alla sicurezza a bordo di mezzi di trasporto pubblico.

Ciascuna di queste finalità comporta modi di utilizzo diversi e richiama differenti procedure di accesso delle immagini da parte delle polizie locali coinvolte direttamente nella gestione degli impianti di videosorveglianza comunali.

Qualora risultino inefficaci altre misure, il controllo sull’abbandono dei rifiuti può essere effettuato dalla polizia amministrativa dei Comuni o da funzionari di aziende municipalizzate appositamente formati anche attraverso sistemi di videosorveglianza.

Proprio la complessità unitamente alla delicatezza della materia ha indotto l’Anci a suggerire ai Comuni come “non sia solo auspicabile, ma anche necessaria l’adozione di un Regolamento, a sostegno degli atti deliberativi e delle determinazioni dell’Ente locale, quale massimo strumento di legittimazione e condivisione, per un corretto utilizzo di applicazioni così invasive”. 

3 febbraio 2018

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