Approfondimento di Luigi Oliveri
Articolo 1, comma 557, legge 311/2004: riguarda solo dipendenti a tempo pieno ed è una vera e propria assunzione da regolare con contratto di lavoro subordinato
Luigi Oliveri
Sulla mostruosità giuridica creata con l’articolo 1, comma 557, della legge 311/2004 e, soprattutto, a causa delle interpretazioni “creative” della Corte dei conti narranti un istituto tanto fantomatico, quanto inesistente, come lo “scavalco d’eccedenza”, chi scrive si è già espresso (L. Oliveri, “Il mostro giuridico dell’articolo 1, comma 557, della legge 311/2004”, in https://www.leggioggi.it/2016/05/19/il-mostro-giuridico-dellarticolo-1-comma-557-della-legge-3112004/).
Purtroppo, una volta che si crea un mostro e che la giurisprudenza si lancia in ardite letture non semplicemente interpretative, ma letteralmente creative, l’utilizzazione di istituti ibridi e complessi induce molto spesso gli enti ad ulteriori ibridazioni, tali da andare con chiarezza ben oltre la violazione della norma.
Nel caso di specie, sono davvero molti gli enti che attivano l’articolo 1, comma 557, anche con lavoratori il cui rapporto di lavoro è a tempo parziale.
Leggiamo, ora, la norma: “I comuni con popolazione inferiore ai 5.000 abitanti, i consorzi tra enti locali gerenti servizi a rilevanza non industriale, le comunità montane e le unioni di comuni possono servirsi dell’attività lavorativa di dipendenti a tempo pieno di altre amministrazioni locali purché autorizzati dall’amministrazione di provenienza”.
Talvolta occorre essere pedanti e, quindi, andare alle basi dell’attività di interpretazione ed attuazione della legge. Quindi, occorre richiamare l’articolo 12 delle Disposizioni sulla legge in generale (“preleggi), ai sensi del quale “Nell'applicare la legge non si può ad essa attribuire altro senso che quello fatto palese dal significato proprio delle parole secondo la connessione di esse, e dalla intenzione del legislatore”.
Ora, mettendo in connessione le parole “dipendenti a tempo pieno”, quale potrebbe mai essere il significato proprio di esse, se non che l’istituto previsto dall’articolo 1, comma 557, della legge 311/2004:
- si applichi solo a dipendenti a tempo pieno
- e quindi sia vietato applicarlo a dipendenti a tempo parziale?
Risulta assolutamente chiaro ed evidente che qualsiasi interpretazione differente da questa, da chiunque sia espressa, non solo contrasta in modo insanabile con l’articolo 1, comma 557, ma anche con l’articolo 12 delle preleggi.
Per tale ragione, è da considerare totalmente erronea la risoluzione della Regione Piemonte 70/2010, ove si afferma: “In merito al quesito, sulla base della legislazione e dei parere sopra richiamati, si evidenzia che nulla osta allo svolgimento di più servizi a scavalco per il personale part time, dato che tale possibilità di servizio a scavalco è autorizzabile per i dipendenti a tempo pieno dei Comuni, a maggior ragione è autorizzabile per il personale part time, il quale addirittura può svolgere due rapporti di lavoro part time contrattualizzati con due Enti”. Tale risoluzione è completamente erronea, perché vìola frontalmente il chiaro precetto normativo posto dall’articolo 1, comma 557, della legge 304/2011, perché viola i canoni interpretativi posti dalle preleggi ed è, per altro, espresso da un soggetto, una regione, assolutamente privo di qualsiasi competenza e, quindi, legittimazione a curarsi delle fattispecie della costituzione e regolazione dei rapporti di lavoro, che la Costituzione rimette alla potestà legislativa esclusiva dello Stato. Tale risoluzione, quindi, vale zero, è tamquam non esset e rivela, purtroppo, una certa tendenza delle regioni, ma non solo, in generale di molti enti di interessarsi impropriamente, ma anche erroneamente, di questioni per nulla attinenti alla propria sfera di competenza.
Un secondo ordine di problemi, poi, riguarda la regolazione del rapporto di lavoro. E’ estremamente diffusa l’opinione che l’articolo 1, comma 557, della legge 311/2004, proprio perché qualificato erroneamente come “scavalco” non implichi l’instaurazione di un rapporto di lavoro tra comune con meno di 5.000 abitanti e dipendente, ma consista in una sorta di estensione del rapporto di lavoro con l’ente di maggiori dimensioni, a beneficio dell’ente di minori dimensioni, nell’ambito di un comune oggetto lavorativo. Sicché, il comune fino a 5.000 abitanti risulterebbe semplicemente un “utilizzatore” del lavoratore messo a disposizione dall’ente di maggiori dimensioni.
Anche questa ricostruzione appare sorretta da una fervida fantasia, che però non si appoggia su alcuna specifica disposizione normativa.
L’utilizzazione comune di un lavoratore potrebbe essere ammissibile solo ed esclusivamente laddove gli enti si convenzionassero.
Attenzione, però, a non confondersi. Non si può certo trattare della convenzione regolata, oggi, dall’articolo 1, comma 124, della legge 145/2018, che ha legificato le previsioni dell’articolo 14 del Ccnl 22.1.2004, che la Corte dei conti ha qualificato (con espressione meno infelice dello “scavalco d’eccedenza”) come “scavalco condiviso. Si tratta di un’ipotesi di vero e proprio scavalco: il dipendente conduce un unico rapporto di lavoro con l’ente di provenienza, ma ripartisce le 36 ore di lavoro tra questo ente ed un altro ente presso il quale svolga attività lavorativa.
In questo caso, la convenzione non riguarda la gestione comune di un servizio, bensì appunto la ripartizione tra due enti di un’unica attività lavorativa.
Si tratta di una situazione assolutamente diversa da quella dell’articolo 1, comma 557; infatti, in questo caso il dipendente non ripartisce tra due enti la propria obbligazione lavorativa di 36 ore, ma svolge nell’ente di piccole dimensioni una prestazione lavorativa che non può eccedere le 12 ore, per non violare il limite settimanale di 48 ore.
Non vi è, quindi, un unico rapporto di lavoro ripartito tra due enti. Né si può pensare ad un unico rapporto di lavoro nell’ente di provenienza, che si espande fino a quello di destinazione per 12 ore.
Se si trattasse dell’espansione di un unico rapporto di lavoro, allora nella sostanza, come pure è stato ipotizzato da alcune pronunce della magistratura contabile, si tratterebbe di un “distacco” o “comando”, ma meglio riferirsi all’istituto che invece è espressamente regolato: assegnazione temporanea. Allora, occorre andare a guardare quanto dispone l’articolo 30, comma 2-sexies, del d.lgs 165/2001: “le pubbliche amministrazioni, per motivate esigenze organizzative, risultanti dai documenti di programmazione previsti all'articolo 6, possono utilizzare in assegnazione temporanea, con le modalità previste dai rispettivi ordinamenti, personale di altre amministrazioni per un periodo non superiore a tre anni, fermo restando quanto già previsto da norme speciali sulla materia, nonché il regime di spesa eventualmente previsto da tali norme e dal presente decreto”.
Ma, l’istituto regolato dal testo unico sul lavoro pubblico non ha nulla a che fare con l’articolo 1, comma 557: infatti, l’assegnazione temporanea implica il totale spostamento del dipendente assegnato dall’ente assegnante a quello assegnatario. Quindi, nel caso dell’assegnazione temporanea (assimilabile al comando), il dipendente non presta 12 ore presso l’ente assegnatario, ulteriori alle 36 svolte presso l’ente di provenienza, bensì svolge tutte le 36 ore verso l’ente assegnatario.
Tanto è vero che il personale in assegnazione temporanea (comandato o distaccato), ai sensi dell’articolo 36, comma 2-bis, del d.lgs 165/2001, ha priorità nella programmazione delle assunzioni: “Le amministrazioni, prima di procedere all'espletamento di procedure concorsuali, finalizzate alla copertura di posti vacanti in organico, devono attivare le procedure di mobilità di cui al comma 1, provvedendo, in via prioritaria, all'immissione in ruolo dei dipendenti, provenienti da altre amministrazioni, in posizione di comando o di fuori ruolo, appartenenti alla stessa area funzionale, che facciano domanda di trasferimento nei ruoli delle amministrazioni in cui prestano servizio. Il trasferimento è disposto, nei limiti dei posti vacanti, con inquadramento nell'area funzionale e posizione economica corrispondente a quella posseduta presso le amministrazioni di provenienza; il trasferimento può essere disposto anche se la vacanza sia presente in area diversa da quella di inquadramento assicurando la necessaria neutralità finanziaria”. Ovviamente, ciò non sarebbe possibile, se il “comando” avvenisse per sole 12 ore.
Non si tratta nemmeno di un distacco, fattispecie regolata, sia pure solo indirettamente, negli enti locali dall’articolo 19, comma 2, del Ccnl 22.2.2004: “Le parti concordano nel ritenere che gli oneri relativi al trattamento economico fondamentale e accessorio del personale “distaccato” a prestare servizio presso altri enti, amministrazioni o aziende, nell’interesse dell’ente titolare del rapporto di lavoro, restano a carico dell’ente medesimo”.
L’istituto laconicamente regolato dal citato Ccnl è meglio definito dall’articolo 30, comma 1, del d.lgs 276/2003: “L'ipotesi del distacco si configura quando un datore di lavoro, per soddisfare un proprio interesse, pone temporaneamente uno o più lavoratori a disposizione di altro soggetto per l'esecuzione di una determinata attività lavorativa”.
Ricostruendo la fattispecie alla luce delle due norme, si evidenzia che ai fini del distacco occorre un interesse proprio dell’ente distaccante a distaccare un proprio dipendente presso un altro ente. Ma, l’ente di maggiori dimensioni non ha, all’evidenza, interesse alcuno all’attività lavorativa del proprio dipendente presso il comune fino a 5.000 abitanti.
Infatti, l’articolo 1, comma 557, della legge 311/2004, per quanto laconico, è chiaro nel:
- non qualificare l’istituto come comando: infatti, si limita a parlare della possibilità dell’ente di piccole dimensioni di “servirsi dell’attività lavorativa” di dipendenti a tempo pieno di altre amministrazioni; i quali, quindi, restano dipendenti delle altre amministrazioni;
- non qualificare l’istituto come distacco: non solo per quanto visto al precedente punto 1, ma anche perché non esiste alcun interesse dell’ente di maggiori dimensioni allo svolgimento di attività lavorativa del proprio dipendente verso l’ente di minori dimensioni;
- non qualificare l’istituto come convenzione: si tratta, semplicemente, di un rapporto tra dipendente dell’ente di maggiori dimensioni ed ente con popolazione fino a 5.000 abitanti: non vi è né la messa in comune di un ufficio, né lo scavalco della prestazione lavorativa. Non si tratta, dunque, nemmeno di una disciplina particolare delle convenzioni di cui all’articolo 30 del d.gls 267/2000, le quali presuppongono la messa in comune di uffici o servizi, sicché i dipendenti preposti esaurirebbero pur sempre il loro debito orario di 36 a vantaggio o di un servizio unificato, oppure a vantaggio di due servizi convenzionati, e in questo caso scatta l’applicazione dell’articolo 1, comma 124, della legge 145/2018.
Cosa disciplina, allora, l’articolo 1, comma 557, della legge 311/2004? E’ semplice: in deroga alle disposizioni normative sull’esclusività del rapporto di lavoro dei dipendenti pubblici, consente ad un dipendente pubblico di un ente che applichi il Ccnl del comparto Funzioni Locali di prestare “attività lavorativa” presso un comune con popolazione fino a 5.000 abitanti; e l’unica relazione che intercorre tra il comune fino a 5.000 abitanti e l’ente dal quale proviene il dipendente l’autorizzazione col quale tale ente consente appunto al proprio dipendente di prestare attività lavorativa oltre le 36 ore.
Non v’è, dunque, nessun comando, distacco, convenzione: una semplicissima autorizzazione dell’ente di provenienza. Non vi è nessuna relazione diretta tra i due enti, ma solo un rapporto tra comune fino a 5.000 abitanti e dipendente autorizzato.
Quindi, è erroneo ritenere che tra dipendente e comune con popolazione inferiore ai 5.000 abitanti non si instaura un rapporto di lavoro. Questa affermazione sarebbe corretta se l’istituto del comma 557 si potesse far rientrare in comando, distacco, assegnazione temporanea o convenzione, sì che tra i due enti si realizzi una relazione organizzativa, sia pur minima.
Invece, non è così. Lo dimostra anche il parere 2141/2005 del Consiglio di stato, spesso impropriamente richiamato per supportare la teoria che il comma 557 non darebbe luogo ad un rapporto di lavoro. Palazzo Spada afferma: “resta ferma la regola, nella quale si riflette il principio costituzionale di buon andamento e di imparzialità dell’amministrazione, che l’utilizzazione presso altri enti locali è consentita per le sole prestazioni lavorative che non rechino pregiudizio al corretto svolgimento del rapporto presso l’ente di appartenenza e non interferiscano con i suoi compiti istituzionali”.
Tale valutazione, ritenuta indispensabile dal Consiglio di stato, è richiesta ovviamente ai fini della concessione dell’autorizzazione al dipendente. Ma, se il dipendente può essere autorizzato purché le prestazioni lavorative rese al comune con popolazione fino a 5.000 abitanti non pregiudichino l’attività lavorativa presso l’ente di appartenenza e non interferiscano con i compiti istituzionali, allora si conferma che:
- il dipendente autorizzato conserva un proprio autonomo e distinto rapporto di lavoro con l’ente autorizzante;
- l’attività lavorativa svolta dal dipendente nel comune con popolazione fino a 5.000 abitanti è necessariamente ulteriore rispetto a quella svolta con l’ente autorizzante;
- tale attività lavorativa potrebbe anche essere diversa da quella svolta presso l’ente autorizzante, tanto che occorre dimostrare la non interferenza coi compiti istituzionali di quest’ultimo;
- poiché potenzialmente l’attività lavorativa del dipendente autorizzato potrebbe interferire con i compiti istituzionali dell’ente autorizzante, si conferma che tra i due enti non sussiste alcun rapporto di convenzione, né vi è espansione del medesimo rapporto di lavoro dall’ente autorizzante verso l’ente autorizzatario.
Tutte queste considerazioni portano ad un’unica conclusione: il dipendente dell’ente autorizzante è autorizzato ad instaurare col comune di popolazione non superiore a 5.000 abitanti un rapporto di lavoro subordinato: altrimenti, non si capirebbe come il dipendente potrebbe svolgere “attività lavorativa” e, soprattutto, attivare un valido rapporto di servizio, tale da poterlo legittimamente insediare negli uffici dell’ente utilizzante e svolgere all’interno dei suoi organi valida attività imputabile all’ente.
L’articolo 1, comma 557, della legge 311/2004, quindi, è norma che consente ad un ente di autorizzare un proprio dipendente a svolgere una prestazione lavorativa subordinata in un comune con popolazione inferiore ai 5.000 abitanti, per non oltre 12 ore settimanali; contestualmente, tale norma in modo implicito consente al comune con popolazione inferiore ai 5.000 abitanti di reclutare il dipendente autorizzato senza un concorso pubblico, ma rivolgendosi singolarmente al dipendente interessato e all’ente al quale esso appartenga, per ottenerne l’autorizzazione.
Trattandosi di una vera e propria assunzione, va inserita nella programmazione dei fabbisogni, incide ovviamente sulle capacità assunzionali, va regolata con contratto di lavoro subordinato, nel quale regolare integralmente tutta la disciplina lavorativa, in via totalmente autonoma con l’altro rapporto di lavoro che intercorre tra il dipendente autorizzato e l’ente autorizzante.
Ogni altra diversa soluzione interpretativa ed operativa porta alla nullità della costituzione del rapporto di lavoro e alle connesse conseguenze giuscontabili, civili ed amministrative.
8 dicembre 2019