Approfondimento di Mario Petrulli

La c.d. fiscalizzazione dell’abuso edilizio secondo la recente giurisprudenza

Servizi Comunali Abusi edilizi
di Petrulli Mario
03 Agosto 2019

Approfondimento di Mario Petrulli                                                                                                    

LA C.D. FISCALIZZAZIONE DELL’ABUSO EDILIZIO SECONDO LA RECENTE GIURISPRUDENZA

di Mario Petrulli

 

Come è noto, l’art. 38 comma 1 del Testo Unico Edilizia[1] dispone che “In caso di annullamento del permesso, qualora non sia possibile, in base a motivata valutazione, la rimozione dei vizi delle procedure amministrative o la restituzione in pristino, il dirigente o il responsabile del competente ufficio comunale applica una sanzione pecuniaria pari al valore venale delle opere o loro parti abusivamente eseguite, valutato dall'agenzia del territorio, anche sulla base di accordi stipulati tra quest'ultima e l'amministrazione comunale. La valutazione dell'agenzia è notificata all’interessato dal dirigente o dal responsabile dell’ufficio e diviene definitiva decorsi i termini di impugnativa[2].

La norma prevede la c.d. fiscalizzazione dell’abuso che, come ben noto agli operatori degli uffici tecnici, pone un serio interrogativo pratico: la procedura indicata si applica solo per i vizi formali (ad esempio, assenza di un parere) o anche per quelli sostanziali (ad esempio, non rispetto di norme rilevanti in materia di volumetria assentibile)?

In passato il Consiglio di Stato, sez. V, nella sent. 8 novembre 2012, n. 5691 e sez. VI, sent. 9 maggio 2016, n. 1861, ha affermato che l’art. 38 citato si applica solo nel caso di permesso di costruire con vizi meramente formali[3].

Più recentemente, invero, l’orientamento sembra essere cambiato: infatti, nelle sentenze 19 luglio 2019, n. 5089 e 28 novembre 2018, n. 6753, la sez. VI ha affermato che la disposizione in esame si applica indipendentemente dal tipo di vizio che ha caratterizzato la procedura, ovvero nel caso di vizi sia formali che sostanziali[4]. Più precisamente, nella sent. n. 5089/2019, i giudici di Palazzo Spada hanno affermato che “È infatti vero che l’espressione “vizi delle procedure amministrative” contenuta nel comma sopra riportato allude a vizi di carattere formale; si tratta però di una soltanto delle ipotesi in cui la sanatoria è ammessa. La norma infatti ne contiene un’altra, messa su un piano di parità, che è quella in cui non sia possibile la “rimessione in pristino”, ipotesi che ha riguardo anzitutto ad una problematica tecnico ingegneristica, e quindi prescinde dal tipo di vizio cui si sia di fronte. In definitiva, l’autorità comunale è tenuta a rimuovere eventuali vizi di carattere formale, ma ove ciò non sia possibile, perché i vizi sono inemendabili o sono di altra natura, prima di ordinare la rimessione in pristino deve valutare se essa sia possibile o no”.

In sintesi, perciò, le valutazioni dell’ufficio tecnico comunali dovranno essere le seguenti:

  1. se si è dinanzi a meri vizi formali, è necessario procedere alla relativa rimozione (ad esempio, acquisendo un parere mancante);
  2. se si è dinanzi a vizi sostanziali o formali non emendabili, valutare la possibilità tecnica della rimessione in pristino e, se ciò è possibile, adottare l’ordinanza di demolizione e ripristino, quale strumento “naturale” conseguente all’annullamento[5]; se la rimessione in pristino non è tecnicamente possibile, applicare la sanzione pecuniaria.
    Particolare attenzione deve essere posta in relazione alla motivazione. Nella citata sent. n. 5089/2019, infatti, il Consiglio di Stato ha affermato che:
  • nel valutare l’impossibilità [della demolizione – n.d.r.] va considerato rilevante non solo il caso di mera impossibilità o grave difficoltà tecnica, ma anche quello ove si riconoscano ragioni di equità o al limite anche di opportunità”;
  • in merito alla quantificazione del valore venale delle opere, la motivazione “ovviamente non può ridursi alla semplice indicazione di un prezzo”: dovrà, perciò, essere indicato il ragionamento logico che ha condotto alla determinazione del valore, anche attraverso l’ausilio dell’Agenzia del territorio.
    Un aspetto importante riguarda il momento in cui quantificare la sanzione: rileva l’epoca di realizzazione dell’abuso o quella in cui si effettua la valutazione e si emana il provvedimento?
    Secondo la giurisprudenza, posto che “la sanzione pecuniaria ex art. 38 comma 1 del DPR 380/2001 è in sostanza il prezzo per la regolarizzazione delle opere abusive, e dunque il suo importo deve essere riferito al presente, ossia al momento in cui avviene l’abbandono della condizione di illegittimità. Proprio la funzione di corrispettivo impone poi di utilizzare come base di calcolo il valore attuale di mercato, in quanto l’opera abusiva diventa liberamente negoziabile solo con la sanatoria, e dunque la somma incamerata dall’amministrazione deve essere coerente con l’utilità attribuita ai privati, evitando che questi ultimi si avvantaggino dell’incremento dei prezzi intervenuto dall’epoca dell’abuso. L’attualizzazione del prezzo, d’altra parte, tutela anche gli autori delle opere abusive, mettendoli al riparo dalle fasi di ribasso del mercato immobiliare. Il valore di mercato a cui fa riferimento l’art. 38 comma 1 del DPR 380/2001 riguarda il bene come appartenente a una categoria di immobili, non la specifica situazione giuridica di ogni singolo edificio. Pertanto, non devono essere detratti i pesi che derivano da atti negoziali, come le ipoteche a garanzia dei mutui o delle aperture di credito. L’importo della sanzione pecuniaria non può essere condizionato dalle scelte dei privati sull’acquisto e sul finanziamento dell’immobile. Devono invece essere considerate le limitazioni imposte da atti amministrativi (zonizzazione urbanistica e acustica; contenimento o cancellazione dei diritti edificatori; vincoli espropriativi; vincoli culturali, paesistici, ambientali, idrogeologici)[6].
    28 luglio 2019
 

[1] DPR n. 380/2001.

[2]In linea diritto, secondo la consolidata giurisprudenza anche della sezione, l’art. 38 cit. si ispira ad un principio di tutela degli interessi del privato mirando ad introdurre un regime sanzionatorio più mite proprio per le opere edilizie conformi ad un titolo abilitativo successivamente rimosso, rispetto ad altri interventi abusivi eseguiti sin dall'origine in assenza di titolo, per tutelare un certo affidamento del privato, sì da ottenere la conservazione d'un bene che è pur sempre sanzionato (cfr. ex multis Consiglio di Stato sez. VI 09 aprile 2018 n. 2155 e 10 maggio 2017 n. 2160).

Il fondamento del regime sanzionatorio più mite riservato dalla norma agli interventi edilizi realizzati in presenza di un titolo abilitativo che solo successivamente sia stato dichiarato illegittimo rispetto al trattamento ordinariamente previsto per le ipotesi di interventi realizzati in originaria assenza del titolo va quindi rinvenuto nella specifica considerazione dell'affidamento riposto dall'autore dell'intervento sulla presunzione di legittimità e comunque sull'efficacia del titolo assentito. A tal fine, all'amministrazione si impone di verificare se i vizi formali o sostanziali siano emendabili, ovvero se la demolizione sia effettivamente possibile senza recare pregiudizio ad altri beni o opere del tutto regolari. In presenza degli anzidetti presupposti per convalidare l'atto, «l'integrale corresponsione della sanzione pecuniaria irrogata produce i medesimi effetti del permesso di costruire in sanatoria di cui all'articolo 36» del testo unico (art. 38, comma 2, del d.P.R. 380 del 2001)”: Consiglio di Stato, sez. VI, sent. 28 novembre 2018, n. 6753.

[3] In tal senso, anche TAR Veneto, sez. II, sent. 28 novembre 2011, n. 1772.

[4] In tal senso, anche TAR Lombardia, Brescia, sez. II, sent. 23 maggio 2018, n. 507, secondo cui “In particolare, è stato precisato che non può essere condiviso l’assunto per cui la rimozione dei vizi ex art. 38 sarebbe consentita solo qualora essi abbiano natura formale o procedurale; diversamente, l’art. 38 è applicabile anche nel caso di annullamento per vizi sostanziali, purché emendabili, con la conseguenza che la demolizione dell’opera realizzata in base a un permesso annullato costituisce l'extrema ratio, perché l’Amministrazione deve privilegiare, ove possibile, la riedizione del potere emendato dai vizi riscontrati e non è certo vincolata ad adottare misure ripristinatorie (in tal senso Consiglio di Stato n. 4221/2015 cit.; cfr. anche Consiglio di Stato, sez. VI, 27 aprile 2015 n. 2137; id., sez. IV, 12 maggio 2014 n. 2398; id., 17 settembre 2012 n. 4923; id., 24 settembre 2010 n. 7131)”.

[5]Ed invero, nel caso di annullamento del titolo abilitativo edilizio, in disparte l‘ipotesi di vizi di ordine meramente procedurale e formale, il modello legale tipico di atto consequenziale è proprio quello dell‘ordine di ripristino dello stato dei luoghi, in quanto unico atto idoneo ad arrecare una piena soddisfazione all‘interesse pubblico alla rimozione delle opere in contrasto con la disciplina urbanistica; cosicché, ove lo sviluppo attuativo del pregresso annullamento del titolo abilitativo edilizio si incanali nell‘alveo naturale della riduzione in pristino, alcun onere di specifica motivazione ricade sull‘amministrazione procedente, il cui operato è obbligatoriamente scandito dallo stesso legislatore; mentre, solo in presenza di circostanze peculiari ed eccezionali, idonee ad accreditare l‘oggettiva impossibilità di attuare la misura ordinaria della riduzione in pristino, sarà possibile accedere alla misura residuale della sanzione pecuniaria, occorrendo, però, in siffatta evenienza giustificare la deroga alla soluzione di ‘tutela reale‘ privilegiata dal legislatore mediante una congrua motivazione che dia adeguatamente conto delle valutazioni effettuate (cfr. TAR Campania, Napoli, sez. II, 21 marzo 2006, n. 3124)”: TAR Veneto, sez. II, sent. 21 aprile 2016, n. 417.

[6] TAR Lombardia, Brescia, sez. I, sent. 7 marzo 2017, n. 331.

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