La relazione della Dna spiega le capacità collusive-corruttive delle mafie negli appalti pubblici
Il potere amministrativo delle mafie (di Roberto Galullo su “Il Sole 24 Ore” del 22 giugno 2017)
La relazione della Direzione nazionale antimafia e antiterrorismo (Dna) che sarà presentata oggi in Senato dal procuratore nazionale Franco Roberti e dalla presidente della Commissione parlamentare antimafia Rosy Bindi contiene dei passaggi a dir poco inquietanti concentrandosi, mai come quest’anno, sulle capacità del crimine organizzato di infiltrare e indirizzare - attraverso il metodo collusivo-corruttivo, preferito a quello “tradizionale” apertamente violento - i meccanismi che gestiscono gli appalti delle pubbliche amministrazioni, garantendosi così ingenti profitti. L’obiettivo della Dna è quello di riuscire finalmente a convincere il Legislatore - attraverso le ampie dimostrazioni fornite nella relazione - della necessità di agire affinché la corruzione sia considerata un’aggravante dell’articolo 416 bis del codice penale, quello che riguarda l’associazione di stampo mafioso. La tesi di fondo contenuta nella relazione dipinge un preoccupante scenario in cui le mafie stesse “diventano autorità pubblica”, in grado di “governare processi e sorti dell’economia”. «L’uso stabile e continuo del metodo corruttivo-collusivo da parte delle associazioni mafiose - si legge nella relazione firmata in prima persona dal capo della Procura Roberti e dal sostituto Francesco Curcio - determina di fatto l’acquisizione in capo alle mafie stesse dei poteri dell’autorità pubblica che governa il settore amministrativo ed economico che viene infiltrato». Una volta acquisito o, meglio, “acquistato” il potere pubblico “questo viene criminalmente utilizzato al fine esclusivo di avvantaggiare alcuni (le imprese mafiose e quelle a loro consociate) e danneggiare gli altri (le imprese e i soggetti non allineati)”. Le indagini condotte dalla Dna hanno evidenziato l’emergere di una nuova figura che, grazie alla propria “professionalità”, è in grado di infiltrare e pilotare verso gli interessi dei sodalizi mafiosi il mondo degli appalti e dei servizi pubblici, soprattutto quelli banditi dalle Regioni e dagli Enti locali che hanno ormai la prevalenza della spesa pubblica nel settore: quella del “facilitatore”. Si tratta di un soggetto intermedio ed autonomo, a suo modo un professionista nel mondo delle opere e dei servizi pubblici, spesso con un passato lavorativo nel settore. E quindi ex politici, para-politici, ex funzionari che hanno imparato a conoscere profondamente la macchina degli apparati pubblici, i suoi tempi, i suoi meandri, ed hanno messo insieme contatti ed amicizie sia in quei contesti che in quelli delle organizzazioni criminali che sono alla ricerca delle loro “consulenze particolari”. La catena mafioso-corruttiva si è perfezionata a tal punto - sostiene la Dna - che si è capovolto perfino il criterio del pubblico interesse: se prima si privilegiavano opere pubbliche utili allo sviluppo socioeconomico di una collettività, ora è la stessa associazione mafiosa che, avendo acquisito tramite i servigi dei facilitatori le capacità tecniche e le indispensabili relazioni politiche, non insegue più ma individua “autonomamente” il settore nel quale vi è la possibilità di ottenere un finanziamento e, consequenzialmente, indirizza e impegna la spesa pubblica. «Si tratta del vulnus più grave alla stessa idea, allo stesso concetto di autonomia locale (…). L’evoluzione del fenomeno è chiarissima e affonda le radici, anche, in una involuzione della classe dirigente del Paese, o quanto meno della parte di classe dirigente e politica che si occupa del fenomeno in esame. Esiste, cioè, una questione politica che in questa sede può solo essere segnalata, ma che altri devono risolvere…» scrivono piuttosto eloquentemente Roberti e Curcio.
Nella meticolosa ricostruzione di come si articola il meccanismo corruttivo, la relazione della Dna passa poi al momento successivo, quello dell’appalto. Una volta individuati i fondi necessari e indirizzate opportunamente le scelte e le priorità della politica locale, sempre grazie alla “professionalità” messa in campo dal facilitatore, va preparato un bando su misura che consenta alle ditte “amiche” di partecipare e che ne valorizzi anche le specificità. Le indagini hanno evidenziato come spesso siano le stesse imprese, o un professionista incaricato, a confezionare integralmente il bando e a passarlo poi alla pubblica amministrazione che lo deve emettere, e i cui uffici amministrativi in molti casi non avrebbero neanche le competenze tecniche necessarie a redigerlo. Bandita in questo modo la gara, non sempre però tutto fila liscio: possono sorgere litigi nello stesso cartello di imprese o sbucare all’improvviso dei terzi incomodi o delle offerte fuori sacco che possono far saltare l’accordo. Ecco allora il colpo di genio, “l’uovo di Colombo della corruzione” che secondo la Dna può intervenire per non correre rischi: la pianificazione scientifica e preordinata della composizione delle Commissioni di gara. Più esattamente la nomina dei componenti eseguita indirettamente, ma non per questo in maniera meno puntuale, dal futuro vincitore della gara stessa. «Il partecipante alla gara che sceglie l’arbitro - conclude la relazione della Direzione nazionale antimafia - è dunque la nuova tendenza, il punto di approdo più alto della corruzione intesa quale sistema». Quali rimedi propone allora la Dna per rendere più difficile la vita alla criminalità organizzata e a questa nuova figura del facilitatore? Pur consapevole del fatto che non possano esistere bacchette magiche e che resterebbero comunque ampi spazi di manovra per il binomio mafie-corruzione, la Direzione propone la piena attuazione del codice degli appalti nella parte in cui prevede l’istituzione di un Albo nazionale dei componenti delle commissioni aggiudicatrici presso l’Anac, l’Autorità anticorruzione. Sarebbe, inoltre, necessario abbassare di molto la soglia degli importi al di sopra della quale rendere obbligatorio il ricorso agli esperti iscritti all’albo nazionale istituito presso l’Anac. Nella relazione, inoltre, c’è un altro allarme lanciato dalla Dna e riportato dal giornalista de Il Sole, un “cavallo di Troia” attraverso il quale le imprese mafiose possono legittimamente introdursi nel settore degli appalti pubblici: i consorzi stabili di imprese. L’articolo 85 comma 2 lettera b) del codice antimafia (riforma attualmente in discussione al Senato) esenta infatti i consorzi stabili di imprese a produrre la documentazione antimafia delle società e delle imprese aderenti, nel caso in cui queste abbiano una partecipazione inferiore al 10%. Speriamo che anche questo appello non rimanga inascoltato.